domenica 11 maggio 2014

A nostra insaputa. Promemoria sulla cessione di sovranità (a proposito di elezioni europee)

Nella foto l'Europa, trasportata da mani amiche, verso il futuro
Uno degli argomenti di cui si dibatte da anni, in particolare in questi anni di crisi, è quello della famosa "cessione di sovranità" degli stati nazionali in favore dell'Unione europea. E' un argomento che solleva sempre polemiche e che è comune a tutto lo spettro politico: dall'estrema destra all'estrema sinistra.
La faccenda è abbastanza complessa ma, tagliando con l'accetta, possiamo dire che, indipendentemente dal colore politico di chi di queste cose discute, in campo ci sono tre posizioni.  
La prima è quella europeista a tutti i costi. Questa posizione (ufficialmente) considera il processo di unificazione europea, monetario economico e politico, non solo ineluttabile ma necessario e questo poiché i singoli stati europei non sono in grado di reggere le sfide di potenze - emergenti e non - come la Cina, la Russia, gli stessi Stati uniti. In questo senso l'unica possibilità che hanno gli stati nazionali di sopravvivere alle nuove sfide globali è quella di "unificarsi" in qualcosa di simile ad una Federazione o Confederazione.
Costi quel che costi.
La seconda posizione è espressa da quanti condividono la necessità di una Unione europea che diventi anche politica ma non sono disposti al "costi quel che costi". Questi mettono in campo una serie di distinguo che ruotano essenzialmente attorno a due elementi: il primo è la questione della "rappresentatività" politica (di fatto inesistente nelle istituzioni europee che contano, cioè la Commissione e il Consiglio) e il secondo è che l'attuale linea politica ed economica dell'Unione è troppo spostata a destra, cioè troppo "liberista" e troppo permeabile a gruppi di pressione di origine industriale/bancario/finanziaria incontrollabili ed incontrollati. A questi due elementi, recentemente, se n'è aggiunto un terzo. Ovvero la decisiva e spropositata influenza che ha nelle decisioni della Commissione e della BCE la "locomotiva d'Europa", cioè la Germania.
La terza posizione è quella che nega ogni legittimità ad un processo di unificazione europea nel nome delle identità nazionali, delle differenze etnico-linguistiche, degli interessi "nazionali", ecc. Per costoro l'Europa è uno spazio geografico in cui tutti condividono molto ma quel molto non è sufficiente, ne mai lo sarà, per rendere l'Europa uno Stato.
Queste tre posizioni in linea di massima sono riconducibili anche a partiti politici ma di fatto sono trasversali e ogni formazione ha al suo interno, più o meno in evidenza, esponenti e militanti che si rifanno alle tre posizioni prima evidenziate.
Ora, indipendentemente da come la si pensi sulla questione (io, lo dico per chiarezza, mi rifaccio alla seconda posizione) forse è poco noto o per nulla noto che la posizione dell'europeismo "costi quel che costi" è una posizione che in Italia è stata costituzionalizzata.
Cioè non è, teoricamente, neppure materia di discussione.
Non lo è (o non dovrebbe esserlo) per diversi motivi, ma uno in particolare: nel 2001 si votò attraverso un referendum proprio sulla questione della cessione di sovranità in favore dell'Unione europea. E il risultato di quel referendum fu che l'europeismo vinse. Vero è che i votanti furono appena il 35% degli aventi diritto, ma è altrettanto vero che in una democrazia decide chi vota, non chi si astiene.
Il referendum cui mi riferisco, per chi ancora non avesse afferrato, è quello del 2001 sulla riforma costituzionale del Titolo V della Costituzione. Quella riforma, voluta ed approvata dal Centrosinistra che governò dal 1996 al 2001, per cercare di frenare il "pericolo" leghista/indipendentista e berlusconiano/populista aveva due parole d'ordine: federalismo e devoluzione. La riforma ridisegnava le competenze tra Stato, Regioni, Province e Aree metropolitane nel senso di un maggiore decentramento del potere centrale.
Senonché, in mezzo ad un mare di parole, un articolo fondamentale si apriva con un incipit che nulla c'entrava con la questione federalista/devoluzionista e che ha consentito, un decennio dopo, di riprendere il discorso con la riforma costituzionale del "pareggio di bilancio".
Cito di seguito il primo comma dell'articolo in questione.

"Art. 117
La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonchè dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali."


Come si capisce bene la frase costituzionalizzata prevede - a questo punto - quattro fonti legislative primarie: il Parlamento nazionale, i Consigli regionali, l'Unione europea (l'"ordinamento comunitario") e i non meglio identificati "obblighi internazionali" (che potrebbero essere i Trattati internazionali, ma questo si sapeva, o meglio ancora gli accordi fatti dall'Italia in sede di istituzioni internazionali vincolanti, per esempio, in sede Nato).
Dovrebbe essere abbastanza chiaro che l'includere tra le fonti di diritto interno anche "i vincoli derivanti" da legislazioni/normative/accordi non interni è una cessione di sovranità a tutti gli effetti.
È opportuno segnalare - en passant - che artefici principali di quella riforma costituzionale sono stati gli ultimi due governi della XIII legislatura e cioè il Governo D'Alema II e il Governo Amato II entrambi sostenuti dalla stessa maggioranza e cioè: Democratici di Sinistra, Partito Popolare Italiano, Verdi, Partito dei Comunisti Italiani, Socialisti Democratici Italiani e altre formazioni politiche (per modo di dire) con nomi variopinti.

Una volta aperta la breccia nella Costituzione, in fatto di cessione di sovranità, è venuto assai semplice al governo del salvatore della Patria, Mario Monti, nell'aprile del 2012, e a tempo di record, allargare la breccia fino a farla diventare una vera e propria porta spalancata. Erano tempi di "emergenza nazionale" e tutti i partiti (Pd, Pdl e ogni altra sorta di formazione) non avevano altra fregola che cambiare la Costituzione secondo il dettatino della Banca Centrale Europea.
La Legge costituzionale del 2012 che introduce il pareggio di bilancio in Costituzione, infatti, rincara la dose.
Ecco altri tre articoli modificati (cito solo il primo comma).

Art. 81
"Lo Stato assicura l'equilibrio tra le  entrate  e  le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e  delle fasi favorevoli del ciclo economico."


Art. 97
"Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, assicurano l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico."


Art. 119
"I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea".


Gli articoli 97 e 119 hanno più propriamente una dimensione economica e finanziaria rispetto all'articolo 117, ma di certo il continuo rimando all'"ordinamento europeo" non lascia dubbi circa le finalità delle modifiche costituzionali.

E' del tutto evidente, mi pare, che il primo comma dell'articolo 117 nel referendum del 2001 non fu neppure preso in considerazione nella campagna referendaria dell'epoca, basando questa soltanto sulla questione del federalismo e, ancora di più, sull'ennesimo referendum pro o contro l'alleanza Berlusconi/Lega nord. Pochi, credo, ebbero contezza di cosa si stava votando (devoluzione compresa) e pochissimi manifestarono dubbi circa la necessità di costituzionalizzare, fra le fonti del diritto interno, anche l'"ordinamento europeo" e gli "obblighi internazionali".
Ora la questione che si pone è: perché il centrosinistra decise che la Costituzione italiana dovesse avere un preciso e inequivocabile riferimento alla produzione legislativa europea? Che idea aveva e ha di questa Europa, di questa Unione europea per meglio dire?
Perché il problema è proprio questo.
Posto che ciascun paese dell'Unione ha quale tratto caratterizzante la democraticità (sono cioé sistemi elettivi con poteri dello Stato bilanciati e consentono strumenti di controllo/partecipazione da parte dei cittadini sulla politica dignitosamente funzionanti, ecc.) si è proprio certi che questa Unione abbia le caratteristiche di un sistema democratico? Che gli elettori europei possano davvero incidere sulle decisioni della Commissione e dei vari Consigli?
Le obiezioni su questo punto sono  numerose e di certo non campate in aria.
Molti dicono, e io sono di questa opinione, che l'intera architettura europea, a rigore, non è democratica. Non lo è per gli scarsissimi poteri che ha il Parlamento, non lo è perché Commissione e Consiglio sono organi con poteri grandissimi espressione di governi e non diretta emanazione del Parlamento e/o dell'elettorato e non lo è perché il controllo che possono esercitare i cittadini sugli organi legislativi è pressocché nullo.
Se così stanno le cose questa cessione di sovranità che l'Italia ha costituzionalizzato ha i requisiti di costituzionalità?
È, cioè, coerente con i principi ispiratori della nostra Carta?
Perché un conto è ratificare direttive europee in Parlamento più o meno liberamente, un altro conto è prevedere che la potestà legislativa è vincolata dall'ordinamento europeo. Soprattutto se si tiene conto che una vasta parte della produzione legislativa di ogni singolo paese dell'Unione è ormai largamente influenzata dalle normative europee in tutti i settori nei quali l'UE ha competenza e che sono decisivi (commercio, agricoltura, sistema bancario, ecc.).
Di fatto la stragrande maggioranza dei cittadini italiani (sondaggi alla mano) non ha neppure idea di cosa è l'Unione europea, come è fatta, cosa decide, chi decide cosa, come e quando. Chi ha qualche conoscenza in più pensa si tratti di un Ente che finanzia la formazione giovanile o i parcheggi nelle città. Chi eccelle nella conoscenza sa addirittura che la sede del Parlamento è a Bruxelles (o forse a Strasburgo) e chi è un esperto della materia conosce nientepocodimeno che il nome del Presidente della Commissione.

Stando così le cose è del tutto evidente che non si parli né dell'art. 117 della Costituzione, né se è possibile cambiare lo stato delle cose in Europa. Al massimo, qualcuno (Renzi per esempio) ci racconta che gli impegni europei vanno onorati ma vanno anche cambiati. Naturalmente si riferisce alla questione dell'austerità, non certo all'architettura di questa istituzione.
Possibile che questioni di tale portata non siano nemmeno prese in considerazione in questa campagna elettorale?
Possibile, naturalmente. Anzi necessario, perché nei sistemi democratici le campagne elettorali sono fatte per le masse e alle masse si parla con slogan ad effetto. Sono finiti i tempi i cui i partiti, nelle sezioni, discutevano di politica e di progetti futuri. Oggi si vive alla giornata e delegando tutto agli "esperti" (di norma economisti o sedicenti tali) oppure ai "politici" (categoria ormai risolutrice di ogni problema o fautrice di ogni problema) cui si chiede, ma solo in periodo di crisi e solo dopo licenziamento, a gran voce "Lavoro!!!".
Dunque dobbiamo accontentarci di vivere questa campagna elettorale con la domanda "vince Grillo o vince Renzi?" Oppure chiederci oziosamente se è meglio uscire o restare nel'Euro.
Salvo poi assistere ad infuocati dibattiti (a suon di slogan) in Tv sulla questione della "cessione di sovranità".
Troppo tardi. Già fatto.
La sovranità è ceduta e, come direbbe l'ormai mitico Scajola, a nostra insaputa.