venerdì 2 gennaio 2015

Filosofia della storia napolitana. Una interpretazione e una previsione

il Presidente Napolitano scruta il futuro
Se non ci saranno ripensamenti dell'ultima ora (cosa già avvenuta due anni fa quando aveva detto che non si sarebbe ricandidato ad essere Presidente, salvo poi farlo) il discorso di fine anno del Capo dello Stato Giorgio Napolitano del 31 dicembre 2014, dovrebbe essere stato l'ultimo. Cosa che, personalmente, mi auguro perché, decisamente, trovo i suoi discorsi, i suoi "moniti" e i suoi "appelli", ottocenteschi, contorti, impastati con un linguaggio criptico (capibile solo da chi sa capire e indirizzti solo a chi deve capire), furiosamente politichesi, retorici e quindi, chiaramente, di stampo democristiano moroteo.
Da questo punto di vista preferisco di gran lunga i discorsetti stile "twitter" di Matteo Renzi, che sono diretti, non camuffati, quasi sempre assertivi e mirati a sollevare polemiche e polveroni piuttosto che felpate discussioni tra addetti ai lavori.
Almeno, coi discorsetti di Renzi, ci si diverte.
Con quelli di Napolitano ci si infartua per noia.

Una minaccia e una filosofia
Detto questo, e tenuto conto del fatto che il discorso presidenziale di fine anno dovrebbe essere l'ultimo, mi sono preso la briga di leggerlo, giusto per vedere se c'era qualcosa di interessante. Come sospettato, al solito, il messaggio contiene una serie di luoghi comuni circa le "eccellenze" italiane di cui vantarsi, di autocitazioni prese da precedenti discorsi, di appelli alla moralità pubblica, di riferimenti difficilmente comprensibili a chi non segue la politica con continuità, eccetera. Robetta, insomma, sulla quale non vale la pena sciupare tempo.
Di significativo, però, ho trovato due cose: una minaccia, per così dire, e una interpretazione della storia secondo Napolitano. Quest'ultima, invero, già nota a molti ma pur sempre interessante.
Della minaccia ci libereremo subito, alla filosofia della storia napolitana dedicheremo qualche parola in più.
La minaccia consiste nel fatto che il Presidente - benché chiarisca che le forze fisiche gli stanno cominciando a mancare - promette, ovvero minaccia, di restare "nei limiti delle mie forze e dei miei nuovi doveri, ... vicino al cimento e agli sforzi dell'Italia e degli italiani". Cioè, fuori dal solito politichese democristiano moroteo, Napolitano, da senatore a vita, continuerà a sostenere (immaginiamo con auspici, discorsi, appelli, moniti e, non ultimo, il voto senatoriale) il governo Renzi e la sua politica di "Grandi Riforme" dell'impianto costituzionale italiano. Tenuto conto del grande prestigio di cui gode tra i vari esponenti della "non-maggioranza" Pd-Forza Italia, a cominciare da Berlusconi e Renzi, non vi è dubbio che il ruolo di Napolitano sarà anche quello di "grande elettore" del suo successore.
Questo per fare capire a chi di dovere che, forze fisiche o non forze fisiche, le dimissioni di Napolitano da Presidente non coincideranno con le dimissioni dalla politica attiva. Anzi, forse si sentirà persino più libero di esercitare il suo ruolo di mediatore tra il leader di Forza Italia e il leader del Pd.
La minaccia, o la promessa, è significativa ma, certo, occorrerà vedere che capacità avrà di essere esercitata.
La parte che ho trovato più importante del messaggio di Napolitano è invece quella riassunta in alcuna frasi che danno invece l'idea di quanto questi si sia sentito attore, e tra i principali protagonisti, di una missione della Storia a lui e a pochi altri affidata. Si tratta di una visione del mondo e della Storia.  Appunto, di una filosofia della storia.
La filosofia della Storia napolitana consiste nel considerare che alcuni processi umani puntino ad oggettive finalità buone e desiderabili. Questi processi, in quanto filosoficamente e teleologicamente orientati verso il bene, risultano anch'essi buoni e quindi vanno sostenuti sempre. Consequenzialmente sono buone e vanno sostenute anche le élites che guidano tali processi. Ovviamene questi processi (e le élites che li governano) vanno sostenuti anche quando appaiono (erroneamente) allontanarsi dal fine ultimo o quando, durante il loro divenire, provocano disagio sociale, conflitti politici particolarmente duri o, perfino, reazioni violente.
E', come si può facilmente evincere, una visione positivista e finalista della storia umana. In qualche maniera simile all'idea marxiana che considerava la rivoluzione proletaria ineluttabile (nonché buona in sé) dentro il contesto del capitalismo europeo e che questa ineluttabilità avrebbe dovuto essere gestita dall'unica avanguardia (élite) che avrebbe potuto governare compiutamente quel processo: il Partito comunista.
Una delle frasi chiave di Napolitano, ad esempio, di tale impostazione filosofica della storia è questa: "Il Centocinquantenario dell'Unità si è perciò potuto celebrare - non dimentichiamolo - con orgoglio e fiducia, pur nella coscienza critica dei tanti problemi rimasti irrisolti e delle nuove sfide con cui fare i conti."
Foto di gruppo di contestari dell'Unità italiana.
In appena trenta parole, Napolitano identifica l'Unità d'Italia quale risultato indiscutibilmente positivo di un processo storico (il Risorgimento) che non può essere messo in dubbio nel suo essere buono, pur tenendo conto dei gravi "problemi", alcuni rimasti "irrisolti", che quel processo trascinò con sè (credo ci si possa riferire anche, per esempio, alla repressione sanguinaria e sanguinosa del cosiddetto "brigantaggio", alla nascita della "questione meridionale", alle migrazioni bibliche di intere popolazioni della neonata "nazione" italiana, eccetera, eccetera). 
In estrema sintesi: l'Unità d'Italia è stato un bene per tutti all'evidenza: storicamente accertato e non più discutibile. Anche se le modalità con le quali è avvenuta sono in qualche punto - diciamo così - criticabili, complessivamente, questi punti critici non possono minimamente mettere in dubbio il fatto che l'Italia unita sia una cosa di gran lunga migliore di una Italia frammentata.
Non ha alcuna importanza discutere, in questa sede, se questa interpretazione filosofico-storica di Napolitano sia corretta o sbagliata, quello che interessa è sottolinare il principio che guida (e giustifica) l'interpretazione dei fatti da parte di Napolitano: esistono processi umani giusti che vanno sostenuti perché giuste sono le finalità del processo, anche se le modalità di perseguimento sono discutibili o possono apparire tali. E questo poiché la Storia si incaricherà di dimostrare che quei processi erano non solo opportuni ma anche desiderabili da tutti (non solo da parte di alcuni).

La filosofia della Storia napolitana applicata all'Europa contemporanea
In questo modo diventa teleologico il concetto di unificazione europea. Ed è grazie a questa interpretazione che diventa necessario impegnarsi affinché l'unione dell'Europa sia reale (cioè politica) e non solo parziale (cioè economica).
La frase seguente esprime perfettamente il concetto: "La crescita economica, l'avanzamento sociale e civile, il benessere popolare che hanno caratterizzato e accompagnato l'integrazione europea, hanno avuto come premessa e base fondamentale lo stabilirsi di uno spirito di pace e di unità tra i nostri popoli."
Ecco qua il riassunto del pensiero-azione di Napolitano: il processo di integrazione europea, che mira all'unificazione politica europea, è stato tutto un susseguirsi di "crescita economica, avanzamento sociale e civile e benessere popolare". 
Cioè il processo di integrazione europea, ancora non completato perché mancante della parte politica, è buono e giusto  perché mira ad un fine buono e giusto ancora più rilevante: la definitiva integrazione europea.
Pertanto: "Nulla di più velleitario e pericoloso può invece esservi di certi appelli al ritorno alle monete nazionali attraverso la disintegrazione dell'Euro e di ogni comune politica anti-crisi."
In effetti la "disintegrazione" dell'Euro, nelle circostanze attuali, significherebbe assai probabilmente la "disintegrazione" dell'intero edificio chiamato "Unione europea". E questa "disintegrazione" ancora prima che essere foriera di disastri inenarrabili è, concettualmente e filosoficamente, sbagliata perché mette in discussione il fine giusto verso sui il processo tende.
Da questo teorema due corollari:
  • a) la profonda avversione di Napolitano verso chiunque metta in discussione il processo in parola sia per le modalità con le quali è condotto sia per la scarsa fiducia - mostrata da alcuni partiti politici - negli attori politici ed economici che lo stanno conducendo;
  • b) la condinscendenza con la quale si guarda ad evidenti (ed oggettive) falle del processo che vengono derubricate a specie di mali necessari, incidenti di percorso, che non possono fare perdere di vista il fine ultimo, buono e necessario, che è l'unificazione politica europea.
Piccoli inconvenienti in Grecia
Dovesse realizzarsi una qualche forma di unione politica - reale e non finta - tra i paesi europei nei prossimi anni o decenni e dovesse permanere tra noi il senatore a vita Napolitano non ci si potrebbe stupire se, parafrasendo se stesso, dicesse: "Il decennale dell'Unità Europea si è perciò potuto celebrare  con orgoglio e fiducia, pur nella coscienza critica dei tanti problemi rimasti irrisolti e delle nuove sfide con cui fare i conti." 
Cioè: che un paese come la Grecia sia stato affamato per anni, che lo Stato sociale in tutti i paesi europei possa essere smantellato per fare posto al "libero mercato", che decine di milioni di persone siano state escluse dal lavoro, dal minimo sindacale di dignità umana sprofodando nella povertà, che gli spazi di democrazia si siano ridotti a forme insignificanti di assemblee dominate da gruppi di interesse e non da partiti radicati tra i cittadini, eccetera, sarebbero tutti fatti considerati come trascurabili "problemi rimasti irrisolti" di fronte alla piena riuscita del processo politico chiamato unificazione politica europea.
Piccoli inconvenienti in Ungheria nel 1956
Non sfuggirà al lettore quanto questa impostazione politica e filosofica dell'universo-mondo di Napolitano sia identica a quella che lo pose, a suo tempo, tra i sostenitori dell'invasione dell'Ungheria da parte delle truppe sovietiche. Solo che allora il fine, buono e giusto, non era l'unificazione dell'Europa ma il trionfo della Rivoluzione comunista.
Verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere. E mi chiedo come ci si possa fidare di un uomo che muta tanto radicalmente opinione indicando sempre nuovi orizzonti teleologici (e, forse, teologici) a seconda dei tempi.

Il punto della questione
In questa visione complessiva del mondo, pertanto, non c'è spazio per chi dissente sui fini di un processo umano considerato buono e giusto ovvero sulle modalità di esecuzione di tale processo. Nel 1956 chi dissentiva (da sinistra) sulla scelta di inviare i carri armati sovietici a Budapest era un traditore del proletariato o un frazionista (anche qualcuno che si chiamava Di Vittorio, per esempio). Oggi chi dissente circa la questione dell'unificazione europea, o sulle modalità con le quali si vuole pervenire a questa, è considerato un "antipolitico" o anche uno che vuole "disintegrare" l'Europa.
Ancora una volta si piange invece che ridere, perché la seriosità con la quale queste accuse vengono mosse, sono così dense di retorica e di fede quasi religiosa  che proprio non c'è alcuna ragione nemmeno per sorridere.
In queste condizioni si spiega allora facilmente anche la pervicacia con la quale Napolitano ha in questi anni spinto verso una radicale riforma della Costituzione italiana nel senso della "semplificazione" del processo legislativo (abolizione del Senato) e della radicale modifica della rappresentanza democratica (verso un modello bipartitico-maggioritario).
La ratio di tale posizione è chiara: solo un parlamento monocamerale con granitica maggioranza di governo può rendere veloce ed efficace il processo decisionale dell'esecutivo e, quindi, la rapida adozione di scelte considerate strategiche per il fine ultimo: cessione di sovranità nazionale in favore di sovranità politica sovranazionale europea.
Naturalmente questo progetto si può realizzare ad una sola condizione: che tutti i partiti possibilmente (ma necessariamente i due principali del sistema maggioritario) siano omogenei dal punto di vista della politica economica e della politica estera, cioè dal punto di vista degli elementi fondamentali che caratterizzano la politica tout court. E queste condizioni, ormai da almeno un ventennio, esistono essendo il Pd (e i suoi predecessori ulivisti) e Forza Italia assolutamente compatibili da questi due punti di vista.
Se vi fossero stati partiti antitetici è del tutto probabile che l'ostinazione di Napolitano verso la riforma della Costituzione sarebbe stata più tiepida o addirittura nulla.
In questa concezione generale dell'universo-mondo di Napolitano, pertanto, è poco significativo che gli attori principali del processo di unificazione politica europea siano, tutti (socialisti, democristiani, liberali), ideologicamente orientati verso il liberismo.
È poco significativo perché quand'anche fossero deludenti o discutibili le loro politiche economiche o le loro politiche estere o entrambe, di fatto, sono gli attori che con maggiore consapevolezza e convinzione portano avanti il fine ultimo, buono e giusto per tutti, dell'unificazione politica europea. Tanto basta ed avanza per difendere questi attori dagli attacchi di chi non la pensa alla stessa maniera e contrattaccare definendo questi ultimi variamente populisti, antipolitici, ecc. ecc.

In conclusione
Le dimissioni annunciate urbi et orbi del presidente Napolitano non aprono incognite sullo sviluppo del processo di modifica della Costituzione né sul perseguimento del fine ultimo di unificazione europea.
Il presidente è con ogni probabilità davvero non più in condizioni di sostenere un incarico che necessita di una consistente dose di pazienza e di notevole forza fisica per essere espletato al meglio. Ma, soprattutto, il presidente è ormai certo che il capo del Governo, Matteo Renzi, è - a differenza delle sue precedenti scelte, cioè Mario Monti ed Enrico Letta - l'uomo giusto per portare a compimento le "necessarie riforme". 
Renzi appare, e con ogni probabilità è, il migliore politico in campo adesso: risulta convincente e gradito a larga parte dei media e dell'elettorato, sta dando prova di una capacità di "persuasione" notevolissima verso il non-alleato Berlusconi, è in grado di reggere gli attacchi delle opposizioni (sindacati compresi) con disinvoltura ed è riuscito nell'impossibile: ha "incardinato" la nuova legge elettorale e l'abolizione del Senato in un calendario parlamentare definito dove, con o senza fiducia, passeranno questi provvedimenti.
Insomma si tratta dell'uomo della provvidenza tanto atteso da Napolitano e da chi la pensa come lui. Un uomo su cui fare affidamento, non scommesse.
In questo panorama è impossibile che il nuovo Capo dello Stato possa essere qualcuno con idee e visioni del mondo differenti da quelle di Napolitano e con una personalità politica forte in grado di condizionare le scelte politiche di Renzi e della sua non-maggioranza.
Chi prenderà il posto di Napolitano dovrà essere un mero esecutore (testamentario, verrebbe da dire) delle decisioni del Governo con una ridotta capacità critica e molta buona volontà, difensore bonario ma convinto dell'europeismo costi quel che costi, partigiano del "decisionismo" governativo ma geloso delle "prerogative" presidenziali e in grado di apparire al grande pubblico quale persona equilibrata, generoso sostenitore della "Patria" italiana, elemento di unità e non di divisione. Quel che occorre è un neutralismo pro forma.
Pertanto sono esclusi in partenza tutti coloro che, in qualche modo, sono fin troppo etichettati con questa o quella posizione politica od economica. I vari Draghi, Padoan, Rodotà, Prodi e molti altri di cui si fanno i nomi in questi giorni sono fin troppo schierati (pro o contro Napolitano) e potrebbero rivelarsi di disturbo al grande "guidatore" Renzi che ha bisogno, per portare a termine il progetto, di non suscitare polemiche che lui non sia in grado di dominare in prima persona.
Profilo basso, grande sintonia di vedute e buona reputazione di mediatore sono doti necessarie per il nuovo presidente della Repubblica. Ed è di un Presidente della Repubblica con tali caratteristiche - tutte presenti, ad esempio, in Pietro Grasso, attuale presidente del moribondo Senato, anche se non solo in lui - che si ha bisogno in una fase delicata come questa.


Qui il discorso integrale del Presidente Napolitano:
Messaggio del 31/12/2014