sabato 5 settembre 2015

Razzismo e paura sociale. Un distinguo


1. Il razzismo
Il razzismo è una cosa molto seria.
È una ideologia, cioè una visione del mondo basata su concetti più o meno astratti e più o meno sofisticati, che "spiega" il perché di alcuni fenomeni sociali, ne individua le ragioni, fornisce soluzioni. Fa, il razzismo, quello che fa qualunque altra ideologia o religione (pur'essa una ideologia): interpreta il mondo.
Il razzismo non è una ideologia che trova sostenitori solo tra le fasce di popolazione più ignoranti e culturalmente chiuse. Per niente. Storicamente è sempre stato una ideologia trasversale che si è radicato nel sottoproletariato come tra la colta borghesia.
La sua idea base è che le popolazioni umane non siano tutte uguali ma che esista, al contrario, un ordine gerarchico dove le popolazioni umane si posizionano in base a criteri variabili ma che, nella sostanza, tendono sempre a stabilire una graduatoria, dall'alto verso il basso. Non esiste un solo criterio per definire la scala gerarchica, naturalmente. Di volta in volta, a seconda di dove l'ideologia razzista viene insegnata e praticata, può essere il colore della pelle, la religione, gli usi e costumi che alcuni gruppi etnici praticano, tutto questo e molto altro ancora variamente miscelato.
Il razzismo è discendente e ascendente. Cioè guarda verso l'alto e verso il basso. L'atteggiamento del razzista non è quello della repulsione verso la popolazione considerata inferiore o superiore. È, nel caso degli di razzismo verso gli "inferiori" quello della dominazione. Nel caso di razzismo verso i "superiori" la complicità, il desiderio di essere accettato. Salvo il caso, naturalmente, in cui il razzista si consideri facente parte della popolazione in cima alla scala.
Dunque per essere davvero razzisti occorre possedere un certo numero di informazioni, vere o false che siano, una discreta capacità di elaborazione intellettuale e la convinzione che le informazioni possedute e la logica che le tiene assieme siano vere, verificate e, in linea di principio, sempre verificabili.
Il razzismo è pertanto un fenomeno politico e della specie più strutturata: è ideologia.

2. La paura
Cosa ben diversa è la paura sociale. Cioè il sentimento di timore che una parte consistente di individui manifestano nei confronti di fenomeni sconosciuti o poco conosciuti ma considerati, complessivamente, a torto o a ragione, una minaccia alla propria sicurezza o alla propria tranquillità sociale e individuale.
La paura sociale si manifesta sempre attraverso la repulsione. Si respinge cioè il fenomeno col quale si viene in contatto o si scappa da questo per il timore che possa essere nocivo, al limite mortale.
I fenomeni che generano paura sociale sono quasi sempre fenomeni di grande cambiamento: politico (l'ascesa di partiti considerati pericolosi, di destra o sinistra che siano), economico (le crisi che determinano disoccupazione, malessere sociale), culturale (la richiesta di liberalizzazione delle droghe, lo sviluppo di tecnologie che stravolgono le abitudini consolidate) e demografico (l'immigrazione).
La paura sociale non è una ideologia. Non ha una visione del mondo organica e strutturata. E' semplicemente un sentimento. Certo, allo stesso modo delle ideologie attecchisce trasversalmente. Si impossessa del sottoproletario analfabeta, come del borghese colto, come dell'intellettuale esterofilo ma, a differenza dell'ideologia, la paura è, come tutti i sentimenti, variamente esposta alle contingenze individuali e sociali che vengono percepite o fatte percepire. E' mutevole, è instabile, è camaleontica e, il più delle volte, non sfocia in azioni politiche (cioè pianificate e coordinate) ma in episodi spontanei considerati di difesa in un certo momento e in un certo luogo: la fuga, l'atto violento, la sottomissione.

3. La paura usata per fare politica
Masse di popolazione che sono pervase da sentimenti sociali forti negativi (paura, odio) sono, come noto, più facilmente esposti alle manipolazioni politiche di qualcuno che freddamente pianifica azioni collettive mirate a raggiungere scopi specifici. L'indifferenza, l'apatia, non generano interesse verso qualcosa, la paura, l'odio, il risentimento sociale, sì. E se qualcuno offre risposte a questi sentimenti è facile che le risposte vengano prese sul serio. Senza rifletterci molto se vengono percepite come rassicuranti e risolutive del problema che genera il sentimento.
E' in fasi in cui le società sono attraversate da grandi sentimenti sociali forti (specie la paura e l'odio) che alcuni individui, politicamente esposti, vengono considerati o il capro espiatorio o, all'opposto, il salvatore della patria. Con tutto quello che situazioni del genere comportano.

4. Cosa sta succedendo in Italia e in Europa
Stiamo assistendo, ormai da almeno tre decenni, a grandi cambiamenti politici, economici e demografici in Europa e in Italia. Tutti e tre questi fenomeni tengono banco alternandosi - a seconda dell'enfasi che i media di massa vi rivolgono - periodicamente e generando sentimenti diffusi di paura, frustrazione, scontento.
Per quanto riguarda uno di questi tre fenomeni, l'immigrazione, io non sono molto propenso a credere che, in generale, gli italiani stiano scoprendosi razzisti nel senso ideologico che ho evidenziato prima. Sono molto più disposto a credere che questa generica ondata di accuse, minacce, tentativi di linciaggi, stomachevoli affermazioni rese sui social network siano più che altro dovute alla repulsione verso un fenomeno percepito come minaccioso. Siano, cioè, paura sociale.
Paura della diversità, paura del perdere il proprio lavoro, paura per la sicurezza personale, paura per una situazione che viene giudicata incontrollabile e incontrollata. Non importa quanto reali siano queste paure. Importa quanto seriamente vengano percepite.
E' una cosa totalmente diversa dal razzismo, sebbene possa essere usata per fare razzismo e potrebbe sfociare nel razzismo (e vi sfocia anche in taluni casi, vedi l'uso schiavistico che viene fatto di molti immigrati di colore, e non solo, nelle piantagioni agricole di molte parti d'Italia).
E' razzismo, vera ideologia, invece quella che in alcuni casi si manifesta in alcuni paesi d'Europa. Paesi storicamente colonialisti, quindi permeati (si studia a scuola, fin dai primi anni, in paesi come la Francia o la Gran Bretagna, il colonialismo come fenomeno di civilizzazione di popolazioni primitive e "selvagge") da una ideologia fondata sulla superiorità culturale che diventa superiorità razziale (la pelle bianca contro quella scura). Oppure paesi con tradizioni storiche dominanti (la Germania, alcuni paesi nati dallo smembramento dell'Impero asburgico).
Non è propriamente razzismo neppure quello che esiste in alcuni paesi europei la cui storia è segnata dalle dominazioni di paesi vicini (paesi baltici, Polonia). Questi paesi tendono a sviluppare politiche di autonomia rispetto ai paesi vicini che li hanno dominati per secoli - o per decenni - e vedono nell'immigrazione di massa (vera, presunta o potenziale) un indebolimento dell'identità nazionale e dell'autonomia politica e quindi una possibile maggiore esposizione agli appetiti di paesi vicini considerati paesi ostili (Russia, Germania).

5. Come distinguere un razzista da uno che ha paura
Non è una operazione particolarmente complicata.
I due profili idealtipici hanno parti che si sovrappongono, ma le due figure non coincidono mai.
Un razzista ha una discreta conoscenza della storia del paese in cui vive, tende a dare a questa storia una aurea di santità, di superiorità, di grandezza. Considera il suo paese un organismo vivente dotato di un'anima, di uno spirito che resiste nei secoli indistruttibile benché malmesso a volte. Parla di "popolo", di "patria", di "civiltà" messi in pericolo dallo "straniero" in genere selvaggio, primitivo, violento. E inferiore. Per destino. Senza possibilità di riscatto. Condannato ad essere inferiore per sempre e dominato per sempre.
Un individuo pervaso dalla paura sociale non arriva a questi livelli di sofisticazione intellettuale. Non perché sia cretino. Semplicemente non gli interessano questi ragionamenti. E' un signore che vive del suo quotidiano, che sia brillante o che sia miserabile. Ma che si sente minacciato. Minacciato di perdere, in favore non degli "stranieri" ma degli "estranei", quello che ha. Poco o molto che sia. Se si avventura in discussioni storiche o sociologiche non ha argomentazioni da proporre che non siano slogan insensati, frasi fatte, luoghi comuni. Dimostra grande disinteresse per tutto quello che si oppone alle sue paure ed accetta solo soluzioni radicali che lo rassicurino. Che sono quelle tipiche che tendono a ridurre il peso della paura: repulsione, fuga, violenza, rassegnazione.
Allo stato dei fatti, per l'esperienza diretta che ho delle cose di cui sto parlando e per quel poco di informazioni storiche, sociogiche ed economiche che ho in possesso, mi sono convinto, pertanto, che il periodo storico che stiamo vivendo non è, almeno non Italia,  attraversato dal razzismo. Invece dalla paura sociale sì. Da quest'ultima questo paese, e non solo questo, è non solo attraversata, ma permeata.

6. FAQ (frequently asked questions)
1) La paura può diventare razzismo?
Sì. A condizione che la politica, cioè gruppi o personaggi politici, lo decidano e indottrinino chi ha paura.

2) La paura può divenire fattore di instabilità sociale in un intero paese? 
Sì. Dipende in larga parte dalle decisioni della politica e da come i fatti vengano trattati dai media di massa.

3) Come si può evitare che la paura degeneri in malessere sociale, in razzismo, in violenza generalizzata? 
La risposta sarebbe troppo lunga. Ne parliamo un'altra volta.

4) qualche consiglio su cosa leggere su argomenti che riguardano la paura sociale e le possibili soluzioni?
Sì. "Il demone della paura" di Zigmund Bauman. Saggio piccolo ma esauriente, alla portata pure degli analfabeti funzionali e suggerisce anche qualche soluzione.

sabato 1 agosto 2015

SETTE LEZIONI "CRITICHE" E LA TEORIA DEL MENO PEGGIO


A otto anni dall'inizio della Grande Crisi del nuovo millennio credo si possa fare un breve sommario dei principali effetti, diretti e collaterali, che questa ha comportato per un pezzo di mondo (quello dell'Europa Occidentale in primis) dal punto di vista economico, sociale e politico.
Ho chiamato questo sommario "lezioni" ma è solo un promemoria senza pretese di completezza, giusto per riepilogare alcune cose (tra le tante) riepilogabili.
  1. la Crisi nasce negli Stati uniti come collasso del sistema finanziario privato dovuto all'ennesima bolla immobiliare. Banche dedite al prestito facile, alle stregonerie mobiliari (CDS, subprime, ecc.), agli investimenti d'azzardo e via dicendo crollano sotto il peso di crediti inesigibili e falliscono - creando disoccupazione, distruzione di ricchezza privata, impoverimento di milioni di persone - oppure (nella maggior parte dei casi) vengono salvate dalle finanze pubbliche, cioè dallo Stato, attraverso tassazioni supplementari per i propri cittadini o (come nel caso statunitense) attraverso una super produzione di moneta. Questo tipo di crisi, per effetto dei legami sempre più forti e intricati a livello mondiale tra gli istituti di credito privati, si trasferisce in Europa rapidamente. Nel frattempo manager e dirigenti a vario titolo di banche che avevano provocato direttamente e indirettamente con le loro dissennatezze e le loro frodi di massa il tracollo del sistema, piuttosto che essere fucilati in luogo pubblico ed accessibile a tutti vengono premiati con "superbonus" e/o addirittura diventano ministri (esemplare, e non unico, il caso di Henry Paulson, ex amministratore delegato di Goldman Sachs Group e Ministro del Tesoro del secondo governo Bush durante i primi anni della crisi);
  2. In Europa la crisi finanziaria privata, attraverso una serie di giochetti politici e attraverso una propaganda liberista particolarmente bene organizzata, massiccia e, aggiungerei, violenta, viene trasformata in Crisi del sistema. Cioè nella pesantissima messa in discussione dei principi fondanti del sistema sociale che va sotto il nome di Welfare State e che ha caratterizzato l'impianto sociale, economico e politico di tutta l'Europa occidentale dal secondo dopoguerra in poi. In Europa si assiste ad un micidiale attacco ideologico contro alcuni dei cardini di questo sistema. L'attacco è principalmente rivolto:
    a) al principio del debito pubblico quale elemento di redistribuzione della ricchezza associandolo all'idea di spreco e corruzione (sempre e in qualunque momento, senza eccezione alcuna);
    b) al principio della protezione della parte più debole nella contrattazione di lavoro (in Italia lo smantellamento dello Statuto dei lavoratori) spacciando tale attacco come elemento di innovazione, di progresso, di allineamento agli standard mondiali;
    c) al principio dell'intervento dello stato nell'economia - considerato dannoso, elefantiaco e inefficiente - messo in atto con una massiccia - ennesima - ondata di privatizzazioni in ogni settore economico di profitto e di non profitto sostenendo che solo un sistema economico totalmente privatistico garantisce efficienza, ricchezza generalizzata e molto altro ancora.
  3. La Crisi produce effetti sociali di diseguaglianza di straordinario rilievo.
    Dopo decenni in cui - per effetto della tassazione principalmente e per la presa in carico dello Stato di una serie lunghissima di oneri sociali considerati diritti (scuola, sanità, ecc.) - si è assistito ad una diffusione generalizzata di benessere economico e sociale, la tendenza si inverte e si assiste ad un fenomeno nel quale fasce sempre più larghe di popolazione si impoveriscono ed élites molto ristrette si arricchiscono (o aumentano spropositatamente la loro ricchezza). Un drenaggio di risorse dal basso verso l'alto continuo e consistente registrato, oltre che ad occhio da tutti, perfino dagli scribi di istituzioni internazionali a vario titolo rappresentative del liberismo dominante (si veda il recente rapporto dell'Ocse sintetizzato qui);
  4. La Crisi ha conseguenze politico-ideologiche - e non solo economiche - estremamente profonde. In pratica le già poco consistenti differenze di politiche economiche tra partiti conservatori e progressisti (almeno a partire dagli anni '80 del XX secolo in poi) si annullano completamente.
    In entrambi gli schieramenti, in tutta Europa, domina una ideologia unica, uniforme e tassativa di tipo liberista che assegna alle virtù taumaturgiche del "mercato" la risoluzione di ogni problema di ordine economico e sociale o quasi. Più concorrenza, più privatizzazioni, più flessibilità nel "mercato" del lavoro, meno spesa sociale, meno controlli nel settore creditizio, meno programmazione economica, diventano slogan dominanti e pratiche politiche pressoché incontestabili e incontestate. Inutile fare notare che è stato proprio il "mercato" - e non lo Stato - a produrre il disastro mondiale del 2007/2008. Ormai la retorica dello Stato come "male assoluto" è universalmente accettata. Prova ne sia il fatto che, a parte insignificanti eccezioni (Grecia del 2015 compresa), tutte le tornate elettorali avute in Europa in questi otto anni hanno assegnato ad uno dei partiti del blocco ideologico liberista (che sia chiamato conservatore o progressista non importa) la maggioranza dei voti. E laddove uno dei partiti non ha ottenuto la maggioranza, i due partiti (o le principali formazioni che condividono l'impostazione liberista) governano assieme in quelle che vengono chiamate "Grandi Coalizioni". Primo esempio tra tutti la Germania e, a seguire, nei fatti anche se non nella forma, l'Italia che ha una maggioranza al governo composita ma totalmente riferibile all'area ideologica liberista.
  5. La Crisi ha prodotto in Europa, nella sostanza e nella prassi anche se non nella forma, una accelerazione del processo di trasferimento di sovranità degli Stati verso istituzioni esterne. In particolare una istituzione non politica, la Banca Centrale Europea, ha, fuori da ogni mandato, assunto una posizione dominante in termini di indirizzo politico verso tutti i paesi dell'area Euro, dissimulato da politiche economiche e monetarie considerate "obiettive", "necessarie" e le "sole possibili". La creazione di fondi europei "salva banche" (variamente denominati), le indicazioni di principio (pareggio di bilancio, privatizzazioni, ecc.) trovano nella BCE il suo principale suggeritore e attore sia direttemente nei confronti degli Stati aderenti all'Euro, sia nei confronti dei due principali organi legislativi dell'Unione (Commissione europea e Consiglio europeo).
    La lettera della BCE (e della Banca d'Italia) , indirizzata in via riservata al governo italiano presieduto da Berlusconi nel 2011, segna - formalmente anche se non sostanzialmente - l'inizio dell'ingerenza di una istituzione "non politica" nella politica degli Stati europei e il rapido trasferimento di sovranità (e di risorse economiche) dagli Stati verso il supergoverno finanziario rappresentato dalla stessa BCE.
  6. La Crisi ha mostrato, con una chiarezza esemplare, che esiste un dominio pressoché totale dei mercati finanziari sui governi nazionali. La ragione di quest'altro trasferimento di sovranità è da ricercare nel cosiddetto "divorzio" (o autonomia) delle Banche centrali nazionali dai governi (per il punto di vista dell'esecutore materiale di questo "divorzio" in Italia, Beniamino Andreatta, si veda qui). Nella pratica, dagli anni 80 in poi, quasi tutti i paesi europei hanno adottato il principio secondo il quale la Banca centrale cessa di essere "prestatore di ultima istanza". Cioè a dire questa non ha più nessun obbligo di acquisto dei titoli di Stato emessi da un Governo per finanziare la spesa pubblica (che è sostanzialmente fatto di due cose: imposte e debito attraverso titoli finanziari come Bot, BTP ecc.). Gli stati sono pertanto "costretti" a vendere sul mercato finanziario privato i loro titoli diventando debitori verso strutture finanziarie private e quasi sempre straniere nel frattempo ingigantitesi e divenute potentissime (società di Fondi di investimento, Banche e tutto il resto della baracca). Questo comporta l'esposizione finanziaria di uno Stato verso enti esterni pressoché totale e una dipendenza da questi che viene chiamata, a seconda dei casi, "credibilità internazionale", "solidità economica" o altri eufemismi ridicoli del genere.
    In queste condizioni, uno Stato è obbligato, ogni volta che i "mercati" (cioè i principali suoi creditori) lo decidono, a seguire le indicazioni degli stessi che, poco incredibilmente, sono indicazioni quasi sempre tassative, di stampo liberista e si servono della più potente arma di coercizione dopo la bomba atomica: la minaccia del mancato finanziamento del debito statale.
  7. La Crisi lungi dal produrre una critica riflessione politica sul modello di sistema economico occidentale (ma oramai universale, poiché accettato, condiviso e praticato in ogni angolo del mondo) basato sul capitalismo della crescita infinita e del consumo ossessivo-compulsivo, ha rafforzato l'idea dominante che oltre questo capitalismo non vi sia null'altro tranne che la morte o il ritorno all'età della pietra. In pratica il principale soggetto ideologico del sistema, il "mercato", è assurto allo status di divinità unica e fondante della civiltà umana. Il famoso comandamento "Non avrai altro dio all'infuori di me", al momento e nei fatti, non si riferisce più al dio degli ebrei o dei cristiani, ma al dio "mercato".
    Nel dibattito politico ed economico lo scontro, infatti, non è sul modello di base (capitalistico consumista ossessivo-compulsivo), ma sulle politiche più idonee a conservarlo, a garantirlo, a salvarlo da sé stesso e a meglio affermarlo. Da una parte gli oltranzisti dell'"austerità" liberista e dall'altra i poco creduti "non ortodossi" sostenitori dell'idea che il capitalismo attuale possa essere salvato solo da dosi massicce di interventismo pubblico (grandi opere, grandi infrastrutture, grandi investimenti industriali, ecc.). L'idea che il sistema stesso possa eventualmente essere superato o radicalmente cambiato è patrimonio di piccole "sette" e movimenti radicali che vanno dagli spartachisti ai decrescizionisti e che sono accomunati da un'unica cosa: il non diritto di cittadinanza (o quasi) nel, flebile, dibattito in corso sui mass-media.
Una conclusione sommaria.
In queste condizioni di radicato monoteismo mercatista, diffuso oltre l'immaginabile tra l'elettorato (il popolo dei fedeli) e tra le classi dirigenti (la classe sacerdotale), non vi è alcuno spazio per pensare che le cose possano essere cambiate in profondità attraverso l'alternanza di forze "radicali" al potere quand'anche queste dovessero, per azzardo, prevalere.
Poiché perfino le forze politiche considerate più "estremiste" al governo - o candidate a governare - in alcuni paesi europei (Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, M5S in Italia) mai hanno messo in discussione il sistema capitalistico consumista ossessivo-compulsivo. Hanno cercato, e cercano, al massimo, di temperare le spigolosità maggiori del sistema stesso.
Il che, nelle condizioni date, è già una fortuna.
E' il "meno peggio". Ma, almeno, esiste.

venerdì 5 giugno 2015

IL POPOLO MINORENNE E IL NUOVO LEVIATANO

E' ormai una moda quella che hanno messo su i governi di mezzo mondo di fare trattati
segreti o "riservati" se si preferisce. Non si fa a tempo a capire cosa è il TTIP o il TTP che subito ne salta fuori un altro: il TISA (ne ha parlato L'espresso qui e qui).
Sono trattati, accordi, internazionali nel segno della liberalizzazione degli scambi di merci e prodotti finanziariari (TTIP) e accordi internazionali nel segno della liberalizzazione, della privatizzazione, della "deregulation" nel settore dei servizi (TISA). Tutti i servizi: quelli sanitari, quelli dell'istruzione, quelli dei trasporti, quelli assicurativi e perfino quelli militari. Compreso, naturalmente, il "servizio/merce" lavoro. Cioè la possibilità di servirsi di operai, professionisti, consulenti e quant'altro senza che vi siano barriere legate, ad esempio, ai contratti collettivi nazionali di lavoro o alle legislazioni, poco "globalizzate", dei paesi aderenti al trattato.
Dovrebbe essere chiaro a tutti che trattati di questo genere intervengono radicalmente nella vita di ogni singolo cittadino di ogni paese che aderirà a questi accordi. E dovrebbe essere altrettanto chiaro a tutti che la mancanza di discussione pubblica, di conoscenza su questi accordi è non una limitazione della democrazia ma il suo annullamento, la sua liquidazione quale che sia la motivazione che ci sta dietro.
Le trattative supersegrete relative a questi trattati sono nelle mani dell'Unione Europea, degli Stati uniti e di parecchi altri paesi occidentali. Almeno teoricamente. Più realisticamente sono nelle mani delle grandi multinazionali e dei grandi gruppi di interesse internazionali che, per interposta persona (cioè attraverso i governi dei paesi in trattativa), decidono come il mondo dovrà essere da qui a qualche anno. Tanto per dire: uno dei principali soggetti che ha pressato governi, parlamenti e parlamentari acché si promuovesse il TISA è la Coalition of Services Groups. Un gruppo di pressione statunitense impegnatissimo da un trentennio nelle politiche di globalizzazione e che include al suo interno membri quali IBM, Google, Citigroup, Walt Disney, Microsoft, JP Morgan. Insomma il gotha del potere economico, finanziario, tecnologico oggi esistente.
Indipendentemente dai contenuti - in ogni caso inquietanti almeno per me - dei trattati di cui si parla, due sono gli elementi significativi, dal punto di vista politico, di queste operazioni.
Il primo è proprio quello cui si accennava prima: la segretezza delle trattative e dei trattati.
Il TISA prevede che non solo il trattato sia segreto e segreto debba rimanere, nel caso di approvazione, per almeno cinque anni, ma che anche le trattative, se non si concludono positivamente, debbano rimanere segrete per lo stesso periodo di tempo.
Il perché di questa segretezza è evidente. Il popolo è minorenne come diceva nel celebre monologo Gian Maria Volonté nel film di Elio Petri "Indagine su un cittadino al si sopra di ogni sospetto". E come tutti i minorenni, magari pure minorati, il popolo potrebbe fare i capricci: organizzare manifestazioni di piazza con dentro i no-global pronti a imbrattare e rompere le vetrine delle banche o dei mac donald's, votare per partiti contrari ai trattati segreti, insomma si potrebbero creare situazioni seccanti che nuocerebbero al buon ordine della civiltà dei consumi. Pertanto meglio mettere tutti di fronte al fatto compiuto dicendo poi, quando l'ultimo degli ospedali pubblici diventerà una clinica privata, che "ce lo chiede l'Europa" nel nome del progresso, della ripresa economica e del benessere di pochi che coincide con la minchioneria di tutti.
Il secondo elemento che va segnalato è la sostituzione di quella cosa che chiamiamo Stato democratico con un insieme di regole definite da multinazionali che, come tutti sanno, non sono strutture democratiche ed elettive ma strutture sociali gerarchiche organizzate sul potere economico e sulla capacità che hanno di produrre non benessere collettivo ma profitto privato.
Hobbes nel suo "Leviatano" indicava lo Stato come il mostro cui ciascun individuo cedeva una parte della sua libertà per potere vivere in sicurezza e pace. L'atto era volontario ed era un male necessario per evitarne un altro ben peggiore: il caos e la violenza di tutti contro tutti.
Oggi il nuovo Leviatano non è più lo Stato. Sono i grandi imperi finanziari, economici ed industriali che usano gli Stati per trovare accordi che non solo proteggano i loro interessi e i loro profitti, ma li amplifichino e li rafforzino. Il problema è che a questo nuovo Leviatano nessuno ha ceduto volontariamente alcuna parte della sua libertà. Semplicemente se l'è presa. Né vi è garanzia che questa cessione di libertà porti ad una pace e sicurezza maggiori rispetto al passato. In compenso questa cessione di libertà è, almeno da punto di vista della percezione, ampiamente ricompensata con un consumismo di massa sempre più scintillante, sempre più futuristico, sempre più fascinoso. Ed è sorretto da una idea di fondo ormai passata in giudicato: che solo la concorrenza, solo la competizione possano assicurare a tutti il meglio. Non vi è più posto in una concezione del mondo di questo genere per la solidarietà (che è sostituita dalla carità volontaria, altrimenti detta beneficienza, da parte dei supermiliardari di turno), né per l'inclusione sociale che è sostituita da questa idea finto darwinista della "meritocrazia" che altro non è - nella pratica - che premio per chi è più cinico e spregiudicato e più "resistente" ad un mondo fatto di legge della giungla e del più forte. Ne v'è più spazio per la partecipazione politica che è delegata agli "esperti", ai "tecnici" provenienti dalle fila delle multinazionali, ovvero ai politici al servizio di questi.
E' il ritorno al passato tutto questo. E' la vera unica e sola "antipolitica". E' l'annullamento di ogni forma di democrazia e il trionfo dell'oligarchia. E' il ritorno al sovrano assolutista fintamente illuminato. E' il ritorno al re, al Leviatano, padre e padrone che si occupa, quando ha tempo e come dice lui, del suo popolo.
Minorenne e minorato.
Però contento e con poco tempo per informarsi. Perfino quando le informazioni gliele sbattono in faccia (L'Espresso, non un samizat di anarco-insurrezionalisti, vi ha dedicato spazio e  titoli di copertina).
Il popolo, minorenne e minorato, è indaffaratissimo a guardare partite di calcio in tv, comprare il comprabile salvo bestemmiare se non può comprarlo, lamentarsi dei politici ladri e osannare i politici servi a forza di tweet.
E' tutta lì, nei tweet, la nuova frontiera della partecipazione (anti)politica. Quella che piace al nuovo Leviatano.

Il TISA nei documenti di Wikileaks
La Coalition of Services Groups
Uno dei testi del TISA


lunedì 4 maggio 2015

Miseria del bipartitismo

Uno degli elementi (falso) sul quale si basa la retorica del renzismo - circa la riforma costituzionale e l'adozione dell'italicum - è dato dall'argomento del bipartitismo.
Il bipartitismo (che si differenzia dal bipolarismo in quanto dominanti nel sistema politico sono due partiti e non due coalizioni di partiti) è considerato una specie di panacea per tutti i problemi legati alla governabilità delle democrazie moderne e, segnatamente, per la democrazia italiana.

La retorica del bipartitismo offre, a sostegno di sé stessa, le seguenti motivazioni:
  • il bipartitismo offre chiarezza di posizioni. Da una parte c'è un partito che la pensa in un modo su un determinato tema (o meglio su un insieme di temi) e dall'altra parte un partito che la pensa in maniera alternativa;
  • il bipartitismo evita la frantumazione politica e con essa l'ingovernabilità di un sistema. Questo poiché la riduzione dei partiti porta con sé, evidentemente, la riduzione delle posizioni politiche eliminando il conflitto tra i partiti al governo o le lungaggini nel processo decisionale parlamentare dovuto, ad esempio, all'ostruzionismo dei piccoli partiti;
  • il bipartitismo garantisce la pluralità nell'unità poiché i due partiti alternativi assommano in sé una pluralità di posizioni che però sono, alla fine, riassunte in posizioni unitarie decise a maggioranza all'interno dei partiti stessi.
In realtà, l'Italicum non è detto che assicuri il bipartitismo. Ma non voglio entrare nel merito di questa questione: altri (molti altri) ne hanno già parlato e qui segnalo soltanto un articolo breve ma esaustivo di Raimondo Catanzaro.
Quello di cui voglio occuparmi è invece un altro aspetto, di fondo, e cioè contestare la "bontà" del bipartitismo come sistema di rappresentanza e di governo che assicura stabilità, rappresentatività e chiarezza di posizioni.

Bipartitismo o monopartitismo?
Il primo punto da tenere a mente è questo. Nelle democrazie europee e in quella statunitense non esiste, nei fatti, il bipartitismo. Non perché non vi siano due partiti dominanti ed esclusivi nella corsa al governo, ma perché le posizioni politiche, nei temi essenziali, tra i due partiti sono pressocché indistinguibili da almeno un trentennio. Il che crea un monopartitismo di fatto. Per cui potrebbe anche essere vero che le posizioni siano chiare, ma non sono due. E' una.
Il caso tedesco, quello inglese, quello americano, quello francese ( pure quello italiano, con le dovute differenze) testimoniano in tal senso.
In politica estera esiste la continuità delle posizioni - sempre e comunque - tra repubblicani e democratici (Usa), tra socialisti e gollisti (Francia), tra socialdemocratici e democristiani (Germania), tra laburisti e conservatori (Gran Bretagna).
Per quanto riguarda le politiche economiche e industriali, idem. L'inizio degli anni '80 rappresenta l'inizio dell'era liberista e della conversione al liberismo di ogni partito che prima era (più o meno) alternativo ad esso. Il mercato e le presunte regole di efficienza del mercato sono alla base di tutte le politiche economiche - di "destra" e di "sinistra" - di deregulation e di privatizzazione che si sono verificate negli ultimi decenni (dall'abrogazione della legge Glass-Steagall e delle sue clonazioni europee, alla quasi totale deregolamentazione dei mercati finanziari, al ridimensionamento del potere contrattuale dei sindacati, ecc.). Sono diventati liberisti i laburisti di Blair, i socialdemocratici di Schroeder, i Socialisti francesi (dai tempi di Mitterand) e, ovviamente, i democratici americani (è di Clinton, per capirci, la firma che abroga la legge Glass-Steagall).
Lo stesso dicasi per quanto riguarda le politiche sociali (stato sociale, pari opportunità, diritti individuali legati alla questione sessuale come ad esempio i matrimoni gay, scuola e università). Anche su questi temi le posizioni generali dei due partiti maggiori sono pressocché identiche e differiscono, quando e se differiscono, sulla maggiore o minore incisività delle misure proposte (es.: magari un partito di "destra" sarà per le unioni civili tra persone dello stesso sesso e un partito di "sinistra" sarà per i matrimoni tout court, ma, nella sostanza, le misure proposte sono equivalenti).
Una situazione del genere non dà origine a nessun sistema bipartitico nel quale si affrontano partiti con posizioni radicalmente o sostanzialmente differenti. Dà origine invece ad un sistema monopartitico, di fatto, nel quale si affrontano, più che due partiti, due uomini più o meno telegenici e più o meno capaci di polemizzare con l'avversario sulla forma e non sul contenuto delle posizioni rappresentate.

Il luogo della rappresentanza e della decisione politica: il trasferimento di sovranità popolare dal Parlamento al Partito che vince le elezioni
Nei sistemi bipartitici dove il capo del governo è eletto contestualmente alla rappresentanza parlamentare (Germania, Francia e Gran Bretagna) la situazione è, se possibile, ancora più "monopartitica" poiché non esiste neppure la possibilità che il governo venga in qualche modo ostacolato nelle sue decisioni da un Parlamento che esprime una maggioranza di elettori diversa da quella che ha eletto il capo del governo. Negli Usa questa possibilità esiste (anche a causa delle diverse date in cui si elegge il Presidente e il Congresso) benché, proprio in ragione della somiglianza gemellare dei due partiti maggiori, è davvero difficile trovare, negli ultimi decenni, elementi di discontinuità seria nell'ambito dei tre fattori decisivi dell'agire di governo cui si faceva riferimento (politica estera, politica economica, politica sociale).
Di fatto quello che accade è pertanto assai semplice da riassumere: la maggioranza parlamentare "sicura" è garantita, per mezzo di leggi ad hoc, al partito che vince le elezioni. Il partito pertanto assume il controllo del Parlamento e ne determina la volontà legislativa. In tal modo avviene un passaggio cruciale: il trasferimento della potestà legislativa dal Parlamento al partito vincitore. E' all'interno del partito che si decidono i temi da affrontare e la loro priorità. Al Parlamento non resta altro che ratificare le decisioni del partito al governo.

Il Partito come contenitore
Nei paesi dove vige il sistema bipartitico i partiti dominanti non sono più i vecchi partiti di massa, radicati nel territorio, capaci di selezionare classe dirigente sulla base di un percorso lungo e anche difficoltoso e con un sostrato culturale ed ideologico chiaro, definito ed oggettivamente alternativo come potevano essere il partito socialdemocratico e quello democristiano tedeschi o quello laburista e quello conservatore britannici del secondo dopoguerra (ma anche del primo).
Sono invece "contenitori".
Luoghi politici, cioè, che contengono le più disparate posizioni politiche e le più disparate (e antinomiche) categorie sociali. Dentro questi contenitori c'è infatti di tutto: dal banchiere all'operaio, dal commerciante al presidente di multinazionali, dal disoccupato al rentier. E c'è di tutto dal punto di vista delle posizioni politiche: da chi vorrebbe la chiusura delle frontiere (ad immigrati e merci) a chi chiede il totale abbattimento delle frontiere stesse (per uomini e merci), dall'ateo militante al credente bigotto e via dicendo. Per tenere assieme tutte queste categorie e posizioni l'unica cosa possibile è affidare ad un lider plenitpotenziario la gestione del partito. Un lider che sia multiforme, prismatico, pieno di sfaccettature, dove chiunque possa riconoscere un tratto di sé stesso o degli interessi che vorrebbe tutelati. Il lider è, pertanto, la sintesi della frammentazione sociale e la sua rappresentazione vivente. Ed è per questo motivo che i moderni partiti nei sistemi bipartitici usano la formula delle primarie. Perché solo l'investitura del "popolo" di partito può garantire la generale tenuta del partito stesso. E' condizione necessaria e sufficiente. Se il partito non è più di classe, se non è più di ispirazione religiosa, se non è più espressione degli interessi di un gruppo sociale omogeneo e identificato allora solo la "reductio ad unum" può garantire la sopravvivenza del partito. La sintesi di tutte le posizioni in un uomo solo.
La sfida elettorale per il governo non è più, pertanto, tra posizioni politiche differenziate e alternative ma tra l'incarnazione di una pluralità di posizioni somigliantissime che si distinguono tra loro solo perché si distinguono tra loro i lider dei due partiti.

I rischi del monopartitismo di fatto.
Le società occidentali ad economia avanzata sono, come noto e come magistralmente esposto da Baumann, società "liquide". Cioè altamente frammentate socialmente, economicamente e culturalmente. Le stratificazioni sociali, la distribuzione del reddito, le estreme varietà di "lavoro" esistente, la velocità con la quale la tecnologia cambia "usi e costumi", sono elementi caratterizzanti di queste società che vivono un equilibrio instabile e precario. Questi caratteri risaltano ancora di più nei momenti di crisi economica e danno origine, assai spesso, a movimenti sociali centrifughi. Il primo dei quali è la disaffezione alla partecipazione politica (astensionismo elettorale) e il secondo la nascita e l'espandersi di movimenti politici radicalizzanti (nazionalisti, razzisti, populisti, ecc.). In questo panorama si affacciano tre elementi di rischio per l'intero sistema sociale e politico di una certa rilevanza e che sono speculari ai tre elementi in premessa ricordati che qualificano la difesa del bipartitismo.
  • E' falso parlare di chiarezza di posizioni opposte e differenziate. I due partiti maggiori che si affrontano per il governo fanno della fumosità la loro forza per la semplice ragione che sono entrambi figli della stessa ideologia liberista. Slogan e tweet e, all'opposto, lunghi programmi illeggibili pieni di grafici e tecnicismi sono i mezzi usati per la propaganda elettorale. I primi e i secondi sono usati a seconda delle necessità contingenti e, normalmente, per offrire a tutti l'idea che quel partito ha elaborato posizioni meditate riassumibili in semplici concetti. Inoltre le parole d'ordine di grande impatto, semplici da ricordare e polisemiche sono lo strumento principale per il convincimento dell'elettorato (ormai fluido e disposto a cambiare partito come si cambia marca di sigarette). Proprio come avviene per una qualunque merce pubblicizzata.
  • E' vero che aumenta la stabilità dei governi, ma a scapito della stabilità sociale. La riduzione ad un solo partito (anche se due formalmente) e quindi la drastica riduzione della rappresentanza partitica in Parlamento non riduce la molteplicità delle opinioni, degli interessi e dei punti di vista: non gli dà rappresentanza. Il che è molto diverso.
    Soprattutto non dà rappresentanza a quanti sono in vario modo esclusi dalla cittadinanza attiva (cioè chi ha un lavoro e un minimo di benessere economico) o sono in procinto di esserne esclusi. Non dà rappresentanza a frange ideologiche molto caratterizzate (di destra o di sinistra, non importa). Non dà rappresentanza a quanti si sentono minacciati da una società in rapidissima e continua evoluzione (si pensi solo ai cambiamenti apportati dall'immigrazione nel tessuto sociale delle grandi città, in ispecie nelle periferie). Non dà rappresentanza a quanti vivono marginalmente (sottoproletariato urbano, popolazione anziana al limite della sopravvivenza, ecc.). Eppure questi gruppi sociali esistono e hanno un loro peso. Evidente che essendo marginalizzati socialmente - ed anche politicamente dal bipartitismo - in vario modo diventano elementi di instabilità sociale poiché o aderiscono a formazioni populistiche/fascistoidi, o a gruppi di contestazione sedicenti rivoluzionari oppure, più semplicemente, non partecipano più alla vita politica lasciando ad altri ogni sorta di decisione collettiva e riducendo drasticamente gli spazi di democrazia.
  • Non è vero che il bipartitismo garantisce la pluralità nell'unità. Le decisioni che il partito prende sono decisioni che vengono adottate a maggioranza. E non può essere diversamente visto che la velocità è una delle caratteristiche principali delle società contemporanee e che le discussioni e i compromessi richiedono tempo e rinunce reciproche. In questo senso il leader del partito è il dominus che decide tempi e modi delle (eventuali) discussioni e ha la parola finale su ogni singolo tema affrontato dentro il partito (ormai depositario della potestà legislativa).
    Nei casi più controversi, non è il leader cambia idea a seguito della discussione nel partito ma il partito che si uniforma all'idea del lider a meno di essere sfiduciato cosa difficilissima a farsi poiché, come si è visto, ormai il leader del partito è scelto attraverso le "primarie".
Malgrado questo sistema di cose abbia questi, e parecchi altri, punti deboli, in Italia, è quello che viene presentato come il migliore possibile per governare le democrazie nelle società avanzate contemporanee e quindi l'Italia stessa.
E' chiaro che si tratta di truffa, ma è altrettanto chiaro che, oramai, questa impostazione gode dell'appoggio di larga parte dell'opinione pubblica e che non subirà contestazioni di rilievo.
Come è chiaro che parlare di democrazia in queste condizioni è mentire, consapevolmente o meno, a sé stessi e agli altri.
Il bipartitismo verso cui va la riforma costituzionale e la nuova legge elettorale (Italicum) non darà origine ad una nuova, moderna, più efficiente forma di democrazia adatta ai tempi.
Darà origine ad una nuova, ma neppure tanto moderna, benché efficiente, forma di governo molto prossima ad una autocrazia temperata dal mantenimento di libertà formali.

martedì 17 marzo 2015

La "Leopolda" di Landini, il Blob liberista e la Cgil scalabile

Da quello che si è capito fino ad ora Landini non vuole fare un partito (di sinistra).
Effettivamente il campo a sinistra del Pd è affollatissimo e aumentano sempre nuovi attori: si va dai ben noti frantumi di quel che fu il Pci (Pcdi, Rifondazione, Pcdl, Sel, ecc.), alle nuove formazioni movimentiste nate sulla scia di successi stranieri (Podemos, l'Altra Europa con Tsipras e, fra non molto, c'è da scommetterci, pure qualcosa che si richiama al Sinn Fein). In un contesto del genere fare un nuovo partito non solo è difficile, è drammatico. Perché a sinistra i partiti e i movimenti risultano, dati elettorali alla mano, praticamente più numerosi degli elettori.
Ma non credo che Landini abbia rinunciato all'idea di un partito a sinistra per questa ragione.
Io credo che stia semplicemente provando a "scalare" la Cgil. E uso il termina "scalare" perché è un verbo che richiama subito alla mente Renzi, che è il vero punto di riferimento (dal punto di vista della strategia, non da quello politico) di Landini. 
A me pare che Landini sia insoddisfatto di come sia gestita, strutturata, di come agisca e di come interpreti la società e il futuro la Cgil. Landini è convinto che l'offensiva liberista al mondo del lavoro salariato, da trenta anni a questa parte, sia passata con il tacito consenso del sindacato oppure con il suo colpevole disinteresse. Ed è convinto che questa offensiva non sia stata portata avanti solo dal "nemico di classe" tradizionale (il blocco conservatore politico-economico fatto dai partiti di centro e dalle associazioni datoriali) ma anche dai partiti "amici" ormai convertiti alle magnifiche sorti del liberismo.

Landini, lo ripete in continuazione, si è convinto che contro questo pastone politico-economico fatto da vecchi e nuovi "nemici di classe" si può sperare di non soccombere completamente unendo le forze, resistendo e contrattaccando sulla base della rivendicazione di diritti sociali negati, esigenze economiche non corrisposte e bisogni materiali ignorati. Queste forze da unire sono disperse e spesso isolate e vanno dai giovani precari, ai pensionati sotto la soglia di povertà, alle partite iva per necessità, ai piccoli artigiani strangolati dalle banche, agli esodati, ai cassintegrati cinquantenni senza futuro, ai disoccupati di lungo corso, agli operai ex articolo 18, ai nuovi operai ex Job Act.
Siccome ha perfettamente compreso quanto la società di oggi sia deideologizzata, depoliticizzata e pertanto aliena dalle etichette partitiche e dalle grandi visioni di cambiamento che hanno caratterizzato gli ultimi due secoli della storia occidentale, ha intravisto nel sindacato - ultimo bastione di consenso e di rappresentanza popolare organizzato per interessi e ancora capillarmente diffuso su tutto il territorio nazionale - l'unica struttura in grado di contrastare il Blob liberista che ha invaso e pervaso ogni ambito della società odierna.

Il sindacato, la Cgil, ha un patrimonio di uomini, strutture operative, conoscenze e capacità di mobilitazione sociale indebolito, certo, ma ancora potente. Ed è anche un marchio. Cioè è un simbolo in cui ci si riconosce, riconosciuto e riconoscibile e questo, nell'epoca della comunicazione globale, non è un elemento secondario.
Purtroppo, secondo quella che mi pare l'analisi di Landini, questo patrimonio è in via di esaurimento se continua "solo" a fare (e pure malamente) sindacato. Ed è destinato a frantumarsi in tanti piccoli soggetti corporativi che, al massimo, potranno essere dei CAF (centri di assistenza fiscale) vista la potenza, crescente e unitaria, della controparte.
Se questa mia interpretazione dei fatti è realistica allora l'iniziativa della Fiom di qualche giorno fa non tende a "fare" un partito ma a "rifare" il sindacato secondo una logica inclusiva che mette da parte l'appartenenza al mondo del lavoro salariato e si apre a ogni altra forma di lavoro (e non-lavoro) decisa ad opporsi ai grandi potentati finanziari, industriali e bancari che ormai dettano l'agenda politica ed economica ai vari governi (non solo italiani).

L'iniziativa della Fiom allora non è più una "chiamata alle armi" politica ma è la strada per fare crescere il consenso intorno a Landini che mira a "scalare" la Cgil. E' una "Leopolda".
Così come Renzi ha organizzato, per qualche anno, una kermesse in cui ha prima avvicinato e poi integrato soggetti lontani dal Pd (a partire dagli imprenditori piccoli e grandi per finire ai finanzieri internazionali) fino a farne forza dirompente che gli ha consentito di impadronirsi del Pd, così Landini spera che un consenso vasto e al di fuori della sola piccola rappresentanza dei metalmeccanici gli consentirà di aggredire i vertici della Cgil e di farne altro rispetto a quello che noi oggi conosciamo.

In questo modo di ragionare vi sono molti rischi. Quello principale è legato alla capacità di resistenza in questa che si annuncia una lunga "scalata" da parte di Landini e dei suoi sostenitori. Non è detto che il suo personale consenso duri, nè che cresca vista, appunto, la frammentazione non solo politica ma anche sociale della popolazione cui fa riferimento. Oggi si vive di "twit" non di progetti di lungo respiro.
Il secondo rischio che corre Landini, è che gli sfugga di mano il "disagio" diffuso e che è il vero fattore X in grado di aggregare attorno ad un progetto soggetti e organizzazioni distanti tra loro per cultura, per appartenenza sociale e per tendenza politica. E' del tutto possibile, infatti, che la favorevole congiuntura economica internazionale (prezzo del petrolio basso, euro fuori dal rischio implosione, ecc.) da qui a qualche tempo possa portare benefici all'occupazione, ai consumi, alle esportazioni e, insomma, rimettere in moto il marchingegno capitalista basato sulla equazione: più consumi, più crescita, più occupazione, più benessere diffuso. Se dovesse succedere questo le possibilità di riuscita del progetto di Landini si ridurrebbero di molto per la drastica riduzione del numero di soggetti in stato di difficoltà (almeno momentaneamente).

Ma, come noto, i rischi se guardati da un'angolatura diversa possono diventare opportunità.
Per cui se il progetto di prendere il controllo della Cgil da parte di Landini, per avventura, dovesse andare a buon fine si verrebbero a creare le condizioni per le quali la frammentazione politica diminuisca notevolmente, magari dando vita ad una formazione federata, ma unitaria, che appoggiandosi al "nuovo" sindacato possa presentarsi alle elezioni come formazione alternativa al Partito del Pensiero Unico liberista incarnato da partito-nazione di Renzi e dai suoi partiti satelliti.

Sarebbe un processo molto simile a quello che ha portato, più di un secolo fa, alla costituzione del Partito socialista italiano ma anche di altri partiti di sinistra in Europa. Partiti che hanno radicalmente cambiato il corso delle cose e che hanno tolto, o ridotto, il potere fino ad allora esclusivamente nelle mani delle élites dominanti.
La scommessa di Landini è ambiziosa, se è vero quello ho detto, ma come tutte le scommesse ha opportunità di essere vinta se le considerazioni dello scommettitore sono ragionevolmente fondate.
Forse lo sono e forse no.
Di certo ci sono, al momento, solo due cose: che fuori dal sindacato tutto quello che si muove a sinistra è insignificante politicamente e che il Blob del liberismo è ormai dilagante.

domenica 8 marzo 2015

Democrazia e totemismo

Un poco più di due anni fa, quando era ancora il supersindaco di Firenze, Renzi illustrava al mondo la sua idea sull'art.18 dello Statuto dei lavoratori (vedi video  allegato). Raccontava che il suddetto articolo era una "totem mediatico" usato solo per propaganda politica e che "non conosceva un solo imprenditore" che si lamentasse del "totem". Al contrario dichiarava che la corruzione, la burocrazia elefantiaca, la giustizia civile lentissima erano i "veri" problemi.
Da ieri la riforma del Diritto del lavoro chiamata Jobs Act, che cancella quasi completamente l'art. 18 (e non solo) dello Statuto, è legge dello Stato. Realizzata in tempi record (ammettiamolo con ammirazione) proprio da Renzi.

Non importa qui stabilire il perché di questo radicale cambiamento di posizione. Tutti cambiamo idea su molte cose e Voltaire diceva che solo i morti e cretini non cambiano idea. La cosa interessante è invece un'altra a mio parere: la capacità di Renzi di essere in grado di intercettare l'orientamento generale (su singole questioni o su una intera interpretazione del mondo), in un dato momento, di buona parte dell'elettorato, farsene interprete e, soprattutto, una volta intercettatolo e divenutone il rappresentante, di riorganizzarlo e riorientarlo verso la direzione che gli interessa. Un leader carismatico ha questo di diverso rispetto ad un leader politico senza carisma.
Il programma del San Sepolcro di Mussolini (atto fondativo del Fascismo) era un programma che metteva assieme proposte e proposizioni socialiste e rivoluzionarie e proposte e proposizioni orientate coinvolgere la media e piccola borghesia impaurite. Era un programma, cioè, perfettamente in linea col sentire comune di larghi strati sociali italiani del primo dopoguerra. Sappiamo bene che fine fece quel programma non appena Mussolini prese il potere.
Qualche decennio più tardi - con minor successo ma con le stesse modalità - un altro leader carismatico - sull'onda di una profonda crisi economica e di rappresentanza democratica (quest'ultima dovuta in buona parte alla vicenda "Mani Pulite") - intercettò un parte abbondante di consenso elettorale schierandosi contro la corruzione e il malaffare e chiamò al suo primo governo (anche se ottenne risposta negativa) il paladino dell'anticorruzione del tempo, il Pubblico Ministero Di Pietro. Poco tempo dopo, una volta padrone del consenso, il leader carismatico lo riorientò verso la direzione a lui più congeniale. Quel leader era Berlusconi.

Un leader carismatico è ambizioso, è spregiudicato, è mimetico, è capace di intuire "l'umore" più comune sparso tra la società ed è in grado non solo di interpretarlo ma, soprattuto, di reinterpretarlo e di stravolgerlo facendo credere che sia sempre lo stesso "umore". Soprattutto, il leader carismatico è convinto di avere una missione storica che nessun altro è in grado di esercitare.
Renzi è, in questo momento, il leader carismatico di cui gli italiani hanno bisogno.
Ce ne sono altri due, invero, che hanno caratteristiche simili alle sue. C'è Grillo e c'è Salvini. Ma, rispetto a Renzi, i due non sono sintonizzati con la parte maggioritaria dell'elettorato italiano. Sono, ciascuno a suo modo, "estremisti". Tendono a farsi interpreti di una parte di elettorato delusa, indignata, impaurita dalla crisi, dall'immigrazione, dalla piccola criminalità e che sogna una palingenesi radicale della società senza sapere però quale modello adottare se non quello di una epoca d'oro vagheggiata e mai esistita, fatta di tutto e del contrario di tutto. In questo elettorato domina la confusione ideologica e psicologica. Questa parte di elettorato, fluttuante e a tratti consistente, è comunque minoritaria. E' destinata a fare pressioni sulla politica e sul potere ma non ad esercitarlo. Almeno fino a che esiste una parte di popolazione ancora mediamente "benestante" e maggioritaria.

Renzi, più scaltramente, ha scelto un altro riferimento elettorale. Quello della "maggioranza silenziosa". Appunto quello, maggioritario, di una popolazione tutto sommato benestante, in grado di sopravvivere alla crisi economica con sacrifici ma senza essere compromessa con la povertà, che anela il ritorno ad un passato fatto di consumi e di benessere diffuso senza particolari difficoltà. Che si nutre di una cultura spicciola e superficiale e che ama "delegare" agli altri sia la comprensione dei problemi che una loro eventuale soluzione limitandosi a segnalarli (e neppure tanto convintamente). E' la parte di elettorato culturalmente piccolo borghese maggioritaria e conservatrice, moderata come si dice oggi e, sempre, ambigua. Non razzista ma patriottarda, non ideologizzata ma a-ideologica, non liberista ma filoliberista, non europeista ma neppure antieuropeista, non rassegnata ma portata all'accettazione e al democristianissimo "tirare a campare". Perfettamente allineata, dunque, col pensiero unico dominante fatto di "There is not alternative" (TINA) e che si affida a "tecnici" ed "esperti" che dicono quello che vuole sentirsi dire in quel momento.
A queste condizioni il leader carismatico Renzi ha gioco facile. Può essere un giorno a favore dello Statuto dei lavoratori e il giorno appresso può cancellarlo. Può dire che la politica è troppo corrotta ma accettare finanziamenti alle sue cene di gala da personaggi discussi e discutibili. Può essere contro l'acquisto di F35 ma acquistarli lo stesso. Può, insomma, cambiare opinione in continuazione, a seconda degli umori del suo elettorato di riferimento, salvo decidere poi fare quello che ha deciso di fare presentandolo come il raggiungimento dell'obiettivo che il suo elettorato desiderava. E siccome il suo elettorato è fluttuante in termini di idee e con la memoria cortissima, in effetti il suo elettorato lo apprezza sempre. E sempre di più.

Il leader carismatico - non un argomento politico - diventa così un totem mediatico. Il totem di tutti.
Di chi lo adora e lo prega e di chi lo odia e lo bestemmia. Di chi lo invoca per "cambiare le cose" e di chi lo offende dicendo che non cambia nulla.
Diventa il centro della politica e della religione laica di un paese. E tanto più è in grado di orientare e riorientare le opinioni dei suoi fedeli tanto più tenta di accreditarsi a tutti i suoi nemici come l'unico totem, l'unico che "fa" e "sa fare" e che "può fare". Attirando verso di lui molti altri ex nemici e avversari, assecondandoli se del caso e poi manipolandoli.
La democrazia post-moderna, figlia del liberismo e del "decisionismo" a convenienza, sradicata dalla partecipazione consapevole e fondata sul consenso plebiscitario, è assai simile alle dittature novecentesche. E' totemismo.
E come tutti i totemismi è una religione debole. Che si affida al totem fino a che il totem garantisce ai più quel minimo di tranquillità di cui necessitano.
Se non ci riesce più, per qualunque ragione, i fedeli del totemismo cambiano totem. Ma prima di cambiarlo lo abbattono e, poi, fanno finta di non averlo mai adorato. Alla ricerca di un nuovo totem.
Che arriverà.


mercoledì 4 febbraio 2015

Il discorsetto di insediamento del Presidente Mattarella. Qualche elemento di riflessione.

Il Presidente saluta con entusiasmo il fotografo
Ad occhio e croce mi pare di potere dire che il discorso di insediamento del
nuovo Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sia stato unanimente salutato con grande favore. Perfino i sempre meno numerosi parlamentari manichei grillini - uomini e donne che sanno dove sta il Bene e la Verità (cioè dalla loro parte) - si lasciano andare alla commozione e al positivo saluto. Per tacere di tutto il resto del panorama politico/mediatico di largo consumo: gli osanna si sprecano, i battimani provocano spellature che son quasi escoriazioni e i sorrisi di soddisfazione sono incontenibili. Insomma il discorso di insediamento del Presidente conferma oltre ogni ragionevole dubbio che si è cambiata pagina e che tutto andrà per il meglio. Adesso, si può dormire tutti più tranquilli.

Il fatto è che, a mio parere, il discorsetto del Presidente profuma di stantio tanto quanto quelli dei suoi immediati predecessori. Non solo non vi si trova nulla di nuovo, ma vi si trova tanto di vecchio, di già visto e sentito e, decisamente, in linea con le aspettative di chi lo ha eletto: cioè il Capo del Governo e pezzi e pezzettini di partiti sedicenti all'opposizione o diversamente al governo. Tutti uniti da una unica ideologia: quella del liberismo in salsa europeista.
In effetti il sermone presidenziale - nella sua impostazione ideologica chiaramente liberista-atlantista - non si discosta di un millimetro dall'impostazione di fondo che hanno il  Partito democratico e Forza Italia (il partito unico al governo in Italia e, sotto altri nomi, in quasi tutti gli altri paesi maggiori europei) in temi essenziali per la vita di un paese, ovvero la politica economica e quella estera. Qualche passaggio del discorso presidenziale dovrebbe aiutarci a capire meglio la questione.

Economia: tutto a posto.
Il Presidente, parlando di economia, dice "la lunga crisi, prolungatasi oltre ogni limite, ha inferto ferite al tessuto sociale del nostro Paese e ha messo a dura prova la tenuta del suo sistema produttivo. Ha aumentato le ingiustizie. Ha generato nuove povertà. Ha prodotto emarginazione e solitudine." E, fin qui, aria fritta. La parte importante arriva quando parla di come risolvere, o almeno tentare di risolvere, la catastrofe. A questo proposito il Presidente aggiunge, convintamente, che "l'urgenza di riforme istituzionali, economiche e sociali deriva dal dovere di dare risposte efficaci alla nostra comunità, risposte adeguate alle sfide che abbiamo di fronte."
Quindi, per capirci, vanno fatte le famose "Riforme" per risolvere la crisi. In effetti, come noto a tutti, la crisi che "ha aumentato ingiustizie, povertà" eccetera eccetera è un tipico prodotto del sistema politico ed economico italiano che è incapace di dare "risposte adeguate alle sfide che abbiamo davanti". Non si è trattato - come erroneamente pensavamo in molti - degli effetti di un capitalismo speculativo e animalesco oltre ogni immaginazione. La crisi non è nata, si è sviluppata e infine esportata in mezzo mondo dagli Stati Uniti. Non è il frutto avvelenato di un sistema economico-finanziario globale votato a predare uomini e cose in un crescendo di bulimia insensata. No, è che siamo arretrati noi. Quindi dobbiamo fare le Riforme. Quali riforme? Il Presidente non lo dice. Ma, proprio perché lo dice, appare chiaro ed evidente che le Riforme sono quelle del governo Renzi/Berlusconi. E cioè, tanto per dire, Jobs Act e consequenziale diminuzione dei - già pochi - diritti di qualche milionata di lavoratori. Nel nome delle "risposte adeguate alle sfide che abbiamo davanti". Grazie a queste "riforme" saremo  in grado di dare "risposte adeguate alle sfide che abbiamo davanti". Apposto.

Ma la sequela di banalità del discorsetto presidenziale, condito da un continuo sostegno al governo Renzi/Berlusconi, non finisce certo qua. Sempre in tema di economia il Presidente fa presente che "va alimentata l'inversione del ciclo economico, da lungo tempo attesa" e per questo "e' indispensabile che al consolidamento finanziario si accompagni una robusta iniziativa di crescita, da articolare innanzitutto a livello europeo. Nel corso del semestre di Presidenza dell'Unione Europea appena conclusosi, il Governo - cui rivolgo un saluto e un augurio di buon lavoro - ha opportunamente perseguito questa strategia."
Chiaro? Per ricapitolare, e senza tanti giri di parole morotei, la questione è semplice: da un lato va bene, anzi benissimo, avere costituzionalizzato - per esempio - il pareggio di bilancio (una delle eresie più demenziali mai scritte in una carta costituzionale) che, notoriamente, serve al "consolidamento finanziario" dall'altro lato va ancora meglio il cosidetto Piano Junker, quella robetta da gioco delle tre carte che si è inventato il marpione lussemburghese per un fantomatico piano di investimenti europei. Perché, cari miei, l'Europa ha in mano le chiavi per uscire dalla crisi e queste chiavi però, chissà perché, non le usa. Ma, evidentemente, grazie ai buoni uffici del prode Renzi, l'Europa cambierà atteggiamento. Anzi, come si vede, lo sta già facendo.
Non vale la pena manco commentare oltre queste dichiarazioni frutto di un assoluto appiattimento sulle posizioni del pensiero unico dominante in fatto di economia. Non c'è neppure l'ombra, non dico di una contestazione di principio, ma neppure di una timida critica. La strada intrapresa è quella giusta e lui non si sogna neppure di discuterla.

Riforme o morte.
Sul fronte delle Riformissime (cioè quelle costituzionali) - cioè quelle per le quali il suo predecessore s'è impegnato fino allo stremo (stremando tutti peraltro) - la musica non cambia. Stessa sonata: appoggio incondizionato al riformatore per eccellenza, il famoso duo Renzi/Berlusconi. Nelle parole del Presidente: "E' significativo che il mio giuramento sia avvenuto mentre sta per completarsi il percorso di un'ampia e incisiva riforma della seconda parte della Costituzione. Senza entrare nel merito delle singole soluzioni, che competono al Parlamento, nella sua sovranità, desidero esprimere l'auspicio che questo percorso sia portato a compimento con l'obiettivo di rendere più adeguata la nostra democrazia."
Qui il linguaggio tipicamente democristiano, moroteo, arzigogolato, sfuggente e chiarissimo allo stesso tempo, raggiunge vette degne di nota. Il Presidente fa presente che lui non vuole entrare "nel merito" delle riforme (in primis la sostituzione dell'attuale Senato con quel mostro costituzionale che è una seconda Camera costituita da consiglieri regionali i cui poteri non si capisce quali siano e a che servano). Aggiunge però, un microsecondo dopo, che "auspica" che questo percorso si concluda il prima possibile.
Per ammodernare la nostra fatiscinte deocrazia, si capisce.
Quindi, fuori dai moroteismi politichesi, Mattarella è prontissimo a firmare la riforma del bicameralismo italiano così come l'hanno confezionata i noti giureconsulti Boschi, Verdini et similia.
Che poi costituzionalisti non proprio al livello di Verdini (tipo Zagrebelsky o Rodotà) sull'argomento poco ci manca e si danno fuoco in piazza, non importa. La strada è quella giusta. Percorriamola assieme serenamente e pacatamente.

L'attacco alla civiltà.
Sulle questioni internazionali più stringenti (terrorismo, immigrazioni che sono ormai esodi e guerre regionali pronte per diventare mondiali) non manca, il Presidente, di ribadire il già ribadito da tutti. E quindi il "terrorismo" è una minaccia globale e va combattuta globalmente. Cioè forza Nato e vai con le bombe sui dittatori sanguinari terroristi che oltraggiano la faccia della terra. Perché, vorrei ricordarlo io visto che il presidente s'è dimenticato di dirlo, per ogni Saddam che scompare ne nascono altri dieci.
Naturalmente non si tratta di una guerra di religione, ci mancherebbe, si tratta di qualcosa di molto più grave. Si tratterebbe nientepocodimeno che di un attacco "ai fondamenti di libertà, di democrazia, di tolleranza e di convivenza." Cioè un attacco all'Occidente che di questi valori è l'unico portatore. Cioè a quella parte del mondo storicamente la più pacifica, la meno propensa alle colonizzazioni sanguinarie e predatorie e la più tollerante verso le minoranze (tanto da avere inventato e alimentato fino all'altro ieri pogrom e Olocausti per tutti i gusti). Insomma l'Occidente è in pericolo e occorre avere risposte adeguate.
Chiedersi per quale motivo ci sia gente più o meno impazzita che taglia teste ad occidentali o cominciare a chiedersi seriamente cosa spinga esseri umani a trasformarsi in demoni, non se ne parla neppure. Peraltro assimilare ai tagliatori di teste chiunque non la pensi come la pensa il favoloso Occidente è invece prassi consolidata, di buon senso e democratica. Insomma tutto come al solito: da una parte c'è il bene, l'Occidente che non ha nulla da capire e da farsi perdonare, e dall'altra c'è tutto il resto, la bestialità assoluta.
Come si vede, anche qui, grandi passi avanti nello sforzo di comprensione del mondo.

Uniti verso la meta: l'Europa.
Infine la questione dell'Europa. Va bene essere italiani, va bene coltivare lo spirito unitario "dal Nord a Mezzogiorno", va bene tutto ma non dimentichiamo che è l'Europa il futuro, è l'Europa quella in grado di vincere le "sfide globali" ci ricorda il Presidente. Pertanto "la prospettiva di una vera Unione politica va rilanciata, senza indugio." E quindi, cerchiamo di essere seri, prima si chiude la fase degli stati nazionali e meglio è per tutti. Peccato che lo spirito unionista europeo sia incarnato dalla Bce o dal ministro delle finanze tedesco e dalle multinazionali che in Lussemburgo hanno uno dei loro paradisi fiscali creato ad hoc dall'attuale presidente della Commissione. Peccato che stiano rifiorendo, ovunque, movimenti nazionalistici con tendenze nazistoidi proprio perché in  molti vedono nell' "orizzonte europeo" una specie di sadica macchina di impoverimento generalizzato e pensano che sia il nazionalismo l'unica alternativa. Peccato che quasi tutti i partiti politici oggi al governo in Europa siano totalmente succubi del "mercato" e che orientino ogni singola scelta a seconda delle "reazioni" di questo nuovo dio e misurino la bontà delle loro riforme a seconda il gradimento che i grandi potentati finanziari multinazionali mostrano comprando o vendendo titoli di stato. Peccato che non si sia tenuto conto di tutto questo nell'indicare la via dell'unione politica europea. Peccato perchè, assai probabilmente, proprio queste ragioni stanno facendo vacillare le fondamenta della costruzione europea.

Chiudiamola qua.
Certo il discorso presidenziale non si è limitato alle cose che ho ricordato qui; non vorrei passare per uno che legge o ascolta solo le cose che gli fanno piacere. Il Presidente ha infatti parlato del cancro della corruzione quale disgrazia nazionale da debellare senza infingimenti, della necessità di una lotta alle "vecchie e nuove mafie" che deve essere decisa e coerente, ha parlato anche della necessità di assicurare ai giovani il "diritto allo studio" perchè esso equivale al diritto di essere liberi. E ha detto parecchio altro di condivisibile. Il fatto è che non è stato né il primo né il solo a parlare di queste cose nè dal pulpito dal quale parlava né da altri pulpiti. E dire che era doverosissimo spendere qualche parola pure su questi argomenti in un discorso di insediamento alla Presidenza della Repubblica mi pare il minimo.
Ci mancherebbe pure che uno che sta per firmare leggi, che scioglierà Camere, che è capo delle Forze armate, che presiede il Consiglio Superiore della Magistratura, glissi su questi temi.
Non è che ci si può felicitare perché lo abbia fatto, sarebbe stato, come minimo, comico che non lo facesse. E siccome l'obiettivo di quanto scritto non era attirare l'attenzione sulle ovvietà del discorso del Presidente (cosa sulla quale invece i quattro quindi dell'universo hanno scritto e continuano a scrivere) quanto quello di mostrare che di "nuovo" da questo Presidente non c'è da aspettarsi nulla in tema di cose serissime, mi sono limitato a commentare alcuni passaggi passati quasi inosservati.
Giusto perché non avevo niente di meglio da fare e perché mi annoiano i peana.

Per chi fosse interessato di seguito il collegamento al testo del discorso di insediamento del Presidente Mattarella: messaggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Parlamento nel giorno del giuramento

venerdì 2 gennaio 2015

Filosofia della storia napolitana. Una interpretazione e una previsione

il Presidente Napolitano scruta il futuro
Se non ci saranno ripensamenti dell'ultima ora (cosa già avvenuta due anni fa quando aveva detto che non si sarebbe ricandidato ad essere Presidente, salvo poi farlo) il discorso di fine anno del Capo dello Stato Giorgio Napolitano del 31 dicembre 2014, dovrebbe essere stato l'ultimo. Cosa che, personalmente, mi auguro perché, decisamente, trovo i suoi discorsi, i suoi "moniti" e i suoi "appelli", ottocenteschi, contorti, impastati con un linguaggio criptico (capibile solo da chi sa capire e indirizzti solo a chi deve capire), furiosamente politichesi, retorici e quindi, chiaramente, di stampo democristiano moroteo.
Da questo punto di vista preferisco di gran lunga i discorsetti stile "twitter" di Matteo Renzi, che sono diretti, non camuffati, quasi sempre assertivi e mirati a sollevare polemiche e polveroni piuttosto che felpate discussioni tra addetti ai lavori.
Almeno, coi discorsetti di Renzi, ci si diverte.
Con quelli di Napolitano ci si infartua per noia.

Una minaccia e una filosofia
Detto questo, e tenuto conto del fatto che il discorso presidenziale di fine anno dovrebbe essere l'ultimo, mi sono preso la briga di leggerlo, giusto per vedere se c'era qualcosa di interessante. Come sospettato, al solito, il messaggio contiene una serie di luoghi comuni circa le "eccellenze" italiane di cui vantarsi, di autocitazioni prese da precedenti discorsi, di appelli alla moralità pubblica, di riferimenti difficilmente comprensibili a chi non segue la politica con continuità, eccetera. Robetta, insomma, sulla quale non vale la pena sciupare tempo.
Di significativo, però, ho trovato due cose: una minaccia, per così dire, e una interpretazione della storia secondo Napolitano. Quest'ultima, invero, già nota a molti ma pur sempre interessante.
Della minaccia ci libereremo subito, alla filosofia della storia napolitana dedicheremo qualche parola in più.
La minaccia consiste nel fatto che il Presidente - benché chiarisca che le forze fisiche gli stanno cominciando a mancare - promette, ovvero minaccia, di restare "nei limiti delle mie forze e dei miei nuovi doveri, ... vicino al cimento e agli sforzi dell'Italia e degli italiani". Cioè, fuori dal solito politichese democristiano moroteo, Napolitano, da senatore a vita, continuerà a sostenere (immaginiamo con auspici, discorsi, appelli, moniti e, non ultimo, il voto senatoriale) il governo Renzi e la sua politica di "Grandi Riforme" dell'impianto costituzionale italiano. Tenuto conto del grande prestigio di cui gode tra i vari esponenti della "non-maggioranza" Pd-Forza Italia, a cominciare da Berlusconi e Renzi, non vi è dubbio che il ruolo di Napolitano sarà anche quello di "grande elettore" del suo successore.
Questo per fare capire a chi di dovere che, forze fisiche o non forze fisiche, le dimissioni di Napolitano da Presidente non coincideranno con le dimissioni dalla politica attiva. Anzi, forse si sentirà persino più libero di esercitare il suo ruolo di mediatore tra il leader di Forza Italia e il leader del Pd.
La minaccia, o la promessa, è significativa ma, certo, occorrerà vedere che capacità avrà di essere esercitata.
La parte che ho trovato più importante del messaggio di Napolitano è invece quella riassunta in alcuna frasi che danno invece l'idea di quanto questi si sia sentito attore, e tra i principali protagonisti, di una missione della Storia a lui e a pochi altri affidata. Si tratta di una visione del mondo e della Storia.  Appunto, di una filosofia della storia.
La filosofia della Storia napolitana consiste nel considerare che alcuni processi umani puntino ad oggettive finalità buone e desiderabili. Questi processi, in quanto filosoficamente e teleologicamente orientati verso il bene, risultano anch'essi buoni e quindi vanno sostenuti sempre. Consequenzialmente sono buone e vanno sostenute anche le élites che guidano tali processi. Ovviamene questi processi (e le élites che li governano) vanno sostenuti anche quando appaiono (erroneamente) allontanarsi dal fine ultimo o quando, durante il loro divenire, provocano disagio sociale, conflitti politici particolarmente duri o, perfino, reazioni violente.
E', come si può facilmente evincere, una visione positivista e finalista della storia umana. In qualche maniera simile all'idea marxiana che considerava la rivoluzione proletaria ineluttabile (nonché buona in sé) dentro il contesto del capitalismo europeo e che questa ineluttabilità avrebbe dovuto essere gestita dall'unica avanguardia (élite) che avrebbe potuto governare compiutamente quel processo: il Partito comunista.
Una delle frasi chiave di Napolitano, ad esempio, di tale impostazione filosofica della storia è questa: "Il Centocinquantenario dell'Unità si è perciò potuto celebrare - non dimentichiamolo - con orgoglio e fiducia, pur nella coscienza critica dei tanti problemi rimasti irrisolti e delle nuove sfide con cui fare i conti."
Foto di gruppo di contestari dell'Unità italiana.
In appena trenta parole, Napolitano identifica l'Unità d'Italia quale risultato indiscutibilmente positivo di un processo storico (il Risorgimento) che non può essere messo in dubbio nel suo essere buono, pur tenendo conto dei gravi "problemi", alcuni rimasti "irrisolti", che quel processo trascinò con sè (credo ci si possa riferire anche, per esempio, alla repressione sanguinaria e sanguinosa del cosiddetto "brigantaggio", alla nascita della "questione meridionale", alle migrazioni bibliche di intere popolazioni della neonata "nazione" italiana, eccetera, eccetera). 
In estrema sintesi: l'Unità d'Italia è stato un bene per tutti all'evidenza: storicamente accertato e non più discutibile. Anche se le modalità con le quali è avvenuta sono in qualche punto - diciamo così - criticabili, complessivamente, questi punti critici non possono minimamente mettere in dubbio il fatto che l'Italia unita sia una cosa di gran lunga migliore di una Italia frammentata.
Non ha alcuna importanza discutere, in questa sede, se questa interpretazione filosofico-storica di Napolitano sia corretta o sbagliata, quello che interessa è sottolinare il principio che guida (e giustifica) l'interpretazione dei fatti da parte di Napolitano: esistono processi umani giusti che vanno sostenuti perché giuste sono le finalità del processo, anche se le modalità di perseguimento sono discutibili o possono apparire tali. E questo poiché la Storia si incaricherà di dimostrare che quei processi erano non solo opportuni ma anche desiderabili da tutti (non solo da parte di alcuni).

La filosofia della Storia napolitana applicata all'Europa contemporanea
In questo modo diventa teleologico il concetto di unificazione europea. Ed è grazie a questa interpretazione che diventa necessario impegnarsi affinché l'unione dell'Europa sia reale (cioè politica) e non solo parziale (cioè economica).
La frase seguente esprime perfettamente il concetto: "La crescita economica, l'avanzamento sociale e civile, il benessere popolare che hanno caratterizzato e accompagnato l'integrazione europea, hanno avuto come premessa e base fondamentale lo stabilirsi di uno spirito di pace e di unità tra i nostri popoli."
Ecco qua il riassunto del pensiero-azione di Napolitano: il processo di integrazione europea, che mira all'unificazione politica europea, è stato tutto un susseguirsi di "crescita economica, avanzamento sociale e civile e benessere popolare". 
Cioè il processo di integrazione europea, ancora non completato perché mancante della parte politica, è buono e giusto  perché mira ad un fine buono e giusto ancora più rilevante: la definitiva integrazione europea.
Pertanto: "Nulla di più velleitario e pericoloso può invece esservi di certi appelli al ritorno alle monete nazionali attraverso la disintegrazione dell'Euro e di ogni comune politica anti-crisi."
In effetti la "disintegrazione" dell'Euro, nelle circostanze attuali, significherebbe assai probabilmente la "disintegrazione" dell'intero edificio chiamato "Unione europea". E questa "disintegrazione" ancora prima che essere foriera di disastri inenarrabili è, concettualmente e filosoficamente, sbagliata perché mette in discussione il fine giusto verso sui il processo tende.
Da questo teorema due corollari:
  • a) la profonda avversione di Napolitano verso chiunque metta in discussione il processo in parola sia per le modalità con le quali è condotto sia per la scarsa fiducia - mostrata da alcuni partiti politici - negli attori politici ed economici che lo stanno conducendo;
  • b) la condinscendenza con la quale si guarda ad evidenti (ed oggettive) falle del processo che vengono derubricate a specie di mali necessari, incidenti di percorso, che non possono fare perdere di vista il fine ultimo, buono e necessario, che è l'unificazione politica europea.
Piccoli inconvenienti in Grecia
Dovesse realizzarsi una qualche forma di unione politica - reale e non finta - tra i paesi europei nei prossimi anni o decenni e dovesse permanere tra noi il senatore a vita Napolitano non ci si potrebbe stupire se, parafrasendo se stesso, dicesse: "Il decennale dell'Unità Europea si è perciò potuto celebrare  con orgoglio e fiducia, pur nella coscienza critica dei tanti problemi rimasti irrisolti e delle nuove sfide con cui fare i conti." 
Cioè: che un paese come la Grecia sia stato affamato per anni, che lo Stato sociale in tutti i paesi europei possa essere smantellato per fare posto al "libero mercato", che decine di milioni di persone siano state escluse dal lavoro, dal minimo sindacale di dignità umana sprofodando nella povertà, che gli spazi di democrazia si siano ridotti a forme insignificanti di assemblee dominate da gruppi di interesse e non da partiti radicati tra i cittadini, eccetera, sarebbero tutti fatti considerati come trascurabili "problemi rimasti irrisolti" di fronte alla piena riuscita del processo politico chiamato unificazione politica europea.
Piccoli inconvenienti in Ungheria nel 1956
Non sfuggirà al lettore quanto questa impostazione politica e filosofica dell'universo-mondo di Napolitano sia identica a quella che lo pose, a suo tempo, tra i sostenitori dell'invasione dell'Ungheria da parte delle truppe sovietiche. Solo che allora il fine, buono e giusto, non era l'unificazione dell'Europa ma il trionfo della Rivoluzione comunista.
Verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere. E mi chiedo come ci si possa fidare di un uomo che muta tanto radicalmente opinione indicando sempre nuovi orizzonti teleologici (e, forse, teologici) a seconda dei tempi.

Il punto della questione
In questa visione complessiva del mondo, pertanto, non c'è spazio per chi dissente sui fini di un processo umano considerato buono e giusto ovvero sulle modalità di esecuzione di tale processo. Nel 1956 chi dissentiva (da sinistra) sulla scelta di inviare i carri armati sovietici a Budapest era un traditore del proletariato o un frazionista (anche qualcuno che si chiamava Di Vittorio, per esempio). Oggi chi dissente circa la questione dell'unificazione europea, o sulle modalità con le quali si vuole pervenire a questa, è considerato un "antipolitico" o anche uno che vuole "disintegrare" l'Europa.
Ancora una volta si piange invece che ridere, perché la seriosità con la quale queste accuse vengono mosse, sono così dense di retorica e di fede quasi religiosa  che proprio non c'è alcuna ragione nemmeno per sorridere.
In queste condizioni si spiega allora facilmente anche la pervicacia con la quale Napolitano ha in questi anni spinto verso una radicale riforma della Costituzione italiana nel senso della "semplificazione" del processo legislativo (abolizione del Senato) e della radicale modifica della rappresentanza democratica (verso un modello bipartitico-maggioritario).
La ratio di tale posizione è chiara: solo un parlamento monocamerale con granitica maggioranza di governo può rendere veloce ed efficace il processo decisionale dell'esecutivo e, quindi, la rapida adozione di scelte considerate strategiche per il fine ultimo: cessione di sovranità nazionale in favore di sovranità politica sovranazionale europea.
Naturalmente questo progetto si può realizzare ad una sola condizione: che tutti i partiti possibilmente (ma necessariamente i due principali del sistema maggioritario) siano omogenei dal punto di vista della politica economica e della politica estera, cioè dal punto di vista degli elementi fondamentali che caratterizzano la politica tout court. E queste condizioni, ormai da almeno un ventennio, esistono essendo il Pd (e i suoi predecessori ulivisti) e Forza Italia assolutamente compatibili da questi due punti di vista.
Se vi fossero stati partiti antitetici è del tutto probabile che l'ostinazione di Napolitano verso la riforma della Costituzione sarebbe stata più tiepida o addirittura nulla.
In questa concezione generale dell'universo-mondo di Napolitano, pertanto, è poco significativo che gli attori principali del processo di unificazione politica europea siano, tutti (socialisti, democristiani, liberali), ideologicamente orientati verso il liberismo.
È poco significativo perché quand'anche fossero deludenti o discutibili le loro politiche economiche o le loro politiche estere o entrambe, di fatto, sono gli attori che con maggiore consapevolezza e convinzione portano avanti il fine ultimo, buono e giusto per tutti, dell'unificazione politica europea. Tanto basta ed avanza per difendere questi attori dagli attacchi di chi non la pensa alla stessa maniera e contrattaccare definendo questi ultimi variamente populisti, antipolitici, ecc. ecc.

In conclusione
Le dimissioni annunciate urbi et orbi del presidente Napolitano non aprono incognite sullo sviluppo del processo di modifica della Costituzione né sul perseguimento del fine ultimo di unificazione europea.
Il presidente è con ogni probabilità davvero non più in condizioni di sostenere un incarico che necessita di una consistente dose di pazienza e di notevole forza fisica per essere espletato al meglio. Ma, soprattutto, il presidente è ormai certo che il capo del Governo, Matteo Renzi, è - a differenza delle sue precedenti scelte, cioè Mario Monti ed Enrico Letta - l'uomo giusto per portare a compimento le "necessarie riforme". 
Renzi appare, e con ogni probabilità è, il migliore politico in campo adesso: risulta convincente e gradito a larga parte dei media e dell'elettorato, sta dando prova di una capacità di "persuasione" notevolissima verso il non-alleato Berlusconi, è in grado di reggere gli attacchi delle opposizioni (sindacati compresi) con disinvoltura ed è riuscito nell'impossibile: ha "incardinato" la nuova legge elettorale e l'abolizione del Senato in un calendario parlamentare definito dove, con o senza fiducia, passeranno questi provvedimenti.
Insomma si tratta dell'uomo della provvidenza tanto atteso da Napolitano e da chi la pensa come lui. Un uomo su cui fare affidamento, non scommesse.
In questo panorama è impossibile che il nuovo Capo dello Stato possa essere qualcuno con idee e visioni del mondo differenti da quelle di Napolitano e con una personalità politica forte in grado di condizionare le scelte politiche di Renzi e della sua non-maggioranza.
Chi prenderà il posto di Napolitano dovrà essere un mero esecutore (testamentario, verrebbe da dire) delle decisioni del Governo con una ridotta capacità critica e molta buona volontà, difensore bonario ma convinto dell'europeismo costi quel che costi, partigiano del "decisionismo" governativo ma geloso delle "prerogative" presidenziali e in grado di apparire al grande pubblico quale persona equilibrata, generoso sostenitore della "Patria" italiana, elemento di unità e non di divisione. Quel che occorre è un neutralismo pro forma.
Pertanto sono esclusi in partenza tutti coloro che, in qualche modo, sono fin troppo etichettati con questa o quella posizione politica od economica. I vari Draghi, Padoan, Rodotà, Prodi e molti altri di cui si fanno i nomi in questi giorni sono fin troppo schierati (pro o contro Napolitano) e potrebbero rivelarsi di disturbo al grande "guidatore" Renzi che ha bisogno, per portare a termine il progetto, di non suscitare polemiche che lui non sia in grado di dominare in prima persona.
Profilo basso, grande sintonia di vedute e buona reputazione di mediatore sono doti necessarie per il nuovo presidente della Repubblica. Ed è di un Presidente della Repubblica con tali caratteristiche - tutte presenti, ad esempio, in Pietro Grasso, attuale presidente del moribondo Senato, anche se non solo in lui - che si ha bisogno in una fase delicata come questa.


Qui il discorso integrale del Presidente Napolitano:
Messaggio del 31/12/2014