venerdì 12 dicembre 2014

Discorso sopra il metodo mafioso. A margine degli eventi di "Mafia Capitale"

"Le mani sulla Città" - di F. Rosi, 1963
Dov’è la mafia 
Pare che vi sia grande stupore, misto a indignazione e riprovazione, per quanto si sta scoprendo in questi giorni circa l'indagine “Mafia Capitale”.
Pare che si cada tutti dal pero.
Come fosse la prima volta che queste cose accadono. Come se l’espressione “Capitale corrotta, nazione infetta” sia stata coniata ieri e non sessanta anni fa da “L’Espresso” in una delle prime grandi inchieste del dopoguerra sul malaffare organizzato.
Pare che Roma, in quanto capitale del Paese, non possa e non debba essere toccata dal fenomeno mafioso che è, invece, un fatto normale, di cui non stupirsi pertanto, per altre città quali Palermo, Napoli o Reggio Calabria. Pare, soprattutto, che il fenomeno mafioso sia inconcepibile che riguardi individui non siciliani, napoletani o calabresi. Questi ultimi, evidentemente, sono considerati da molti antropologicamente e/o culturalmente predisposti non solo ad accettare il fenomeno mafioso, ma ad essere mafiosi loro stessi. Per il semplice motivo che essi godono di una prerogativa che li rende speciali rispetto a tutto il resto della popolazione del globo: la “mentalità” mafiosa.
Cosa abbia creato questa opinione, largamente diffusa, è noto a tutti ed è non solo giustificabile, ma giustificato. Le vicende storiche del sud dell'Italia, la letteratura e il cinema che si sono occupati di Mafia, le inchieste giornalistiche, ecc. ecc. hanno contribuito a creare una sorta di idealtipo (sarebbe meglio di dire cliché o luogo comune) sia del mafioso che dell'organizzazione criminale chiamata Mafia. Idealtipi, almeno nell'opinione più diffusa, secondo cui il mafioso è un taciturno signore, meridionale, che si esprime non a parole e nemmeno a gesti ma a schioppettate e l'organizzazione è un sodalizio di personaggi del genere dediti all'illegalità, alla sopraffazione, al commercio illecito, all'omicidio con una finalità unica: accumulare denaro e potere a spese dei non mafiosi. Tutto sommato l'idealtipo poggia su basi fondate, tuttavia è traballante.
E' traballante perché non spiega come mai il fenomeno mafioso, ammesso che sia una caratteristica di popolazioni del meridione d'Italia, sia presente a qualunque latitudine del mondo specie in contesti in cui manca, in parte o del tutto, la cosidetta “cultura mafiosa” cioè la compatibilità culturale tra chi è mafioso e chi mafioso non è.
Ed è traballante perché non spiega come mai un fenomeno del genere resista, imperterrito, alle grandi evoluzioni scientifiche, tecnologiche e, soprattutto, culturali e di costume che si sono registrate dacché si parla di Mafia (cioè, almeno, dalla seconda metà del XIX secolo).
Ed è traballante perché esistono organizzazioni, in alcune parti del mondo, che pur essendo distanti decine di migliaia di chilometri dal sud Italia e non avendo mai visto manco in fotografia un siciliano o un calabrese hanno struttura, obiettivi e consuetudini del tutto simili a quelle organizzazioni a noi tanto familiari (Yakuza, Triade Cinese, Organizacija russa, per esempio).
Infine è traballante perche i cosidetti mafiosi non fanno affari solo a spese dei non mafiosi, ma assai spesso assieme a questi e ai danni della collettività.
Al che nasce la domanda: ma può essere che il fenomeno mafioso sia potenzialmente “universalistico”, nel tempo e nello spazio, e che, perciò, con un minimo di buona (o di cattiva) volontà, possa essere esportato in qualunque contesto umano evoluto (nel senso europeista del termine) indipendentemente dall'origine geografica degli individui che compongono quel contesto?
La mia risposta è sì.
Poiché il fenomeno mafioso si basa su due elementi - organizzazione e metodo - che sono facili da capire e tendenzialmente assimilabili da chiunque voglia praticarli; indipendentemente dalla sua lingua, dal paese dove è nato e vive, ecc.

Com’è la mafia
Cosa distingue una organizzazione criminale di tipo comune (una banda di rapinatori o di sequestratori, ad esempio) da una organizzazione criminale di tipo mafioso?
Non la segretezza, poiché in nessuno dei due casi è opportuno manifestare pubblicamente l'appartenenza all'organizzazione.
Non l'uso della violenza. Poiché entrambe le organizzazioni si servono (anche) della violenza per ottenere gli obiettivi prefissati.  
Non l'accesso all'organizzazione. Poiché esso avviene sempre per cooptazione e per “merito” (cioè per specifiche caratteristiche del membro considerate utili se non indispensabili al buon funzionamento dell'organizzazione).  
Non il desiderio di ottenere benefici e vantaggi, personali e/o collettivi, tramite l'uso della violenza altrimenti non ottenibili. Anche questo aspetto è comune a tutti i tipi di organizzazione criminale.
Cosa distingue allora la mafia da tutto il resto?
Due cose essenzialmente.
In primo luogo la trasversalità mutualistica dei membri e, in secondo luogo, il rapporto integrato col potere. Questi due elementi fanno la differenza, di importanza essenziale, con una qualunque altra associazione criminale.
Vale la pena capirci quando parliamo di trasversalità mutualistica e di rapporto integrato col potere.
Il primo elemento caratterizza il fatto che l’organizzazione criminale non è composta soltanto da banditi o, più genericamente, da delinquenti di varia estrazione. L’associazione contiene al suo interno pressocché tutte le dimensioni della stratificazione sociale dell’ambito in cui opera. Sottoproletari e ricchi imprenditori, analfabeti politici e politici di professione, piccolo borghesi e grandi personalità delle professioni liberali, ladri e guardie - con tutto quello che sta nel mezzo tra questi opposti - fanno parte a vario titolo (cioè con varie cariche di potere, con zone di influenza, ecc.) dell’organizzazione.
Non vi è - né teoricamente né fattualmente - alcuna necessità di tipo “tecnico” perché per fare parte di una organizzazione olistica del genere si debba passare attraverso riti più o meno evocativi di esoterismi medievali (“punciuta”, “battesimi”, ecc.).
Questi riti, di per sè, non significano altro che una adesione all’organizzazione di tipo formale, magari significativa in termini di esprit de corps ma non essenziale ai fini fattuali. Si fa parte dell’organizzazione in quanto si accetta il metodo dell’organizzazione, si accetta di essere “a disposizione” dell’organizzazione, si rispettano le regole e si è consapevoli, con largo anticipo, dei rischi che si corrono nel farne parte nonché dei vantaggi (in ogni senso) che si possono acquisire attraverso l’adesione all’organizzazione e che altrimenti sarebbero impossissibili da raggiungere.
In questo senso un politico/amministratore pubblico che - consapevolmente, senza costrizione e anzi con l’attesa di una contropartita - per la prima volta favorisce una impresa già stabilmente dentro una organizzazione mafiosa diviene esso stesso mafioso. Non importa che abbia prestato giuramento: a lui e agli altri membri importa che egli abbia dimostrato di accettare metodo e regole dell’organizzazione.
Questo vale per il politico come vale per qualunque altro individiduo, di qualunque altra categoria sociale, che si affilia all’organizzazione per ottenere vantaggi.
Questa trasversalità sociale diventa mutualistica poiché si basa, assai spesso anche se non sempre, su elementi di reciprocità, cioè di scambio considerato alla pari: denaro contro appalti, servizi contro voti, lavoro contro disponibilità a nascondere uomini e cose, in un universo infinito di possibilità che dipendono appunto dall’universo di individui che compongono a vario titolo l’organizzazione. Più è alto il numero di individui che partecipano all’associazione e più è varia la loro appartenenza a categorie sociali, più si estendono le possibilità di profitto a vantaggio di tutti in un gioco reciproco di scambi.
Il secondo elemento, il rapporto integrato col potere, è strettamente collegato al primo e di questo ne è una naturale ramificazione. Lasciare fuori dall’organizzazione criminale il Potere (quello politico e quello economico in ispecie) equivarrebbe a dovere intrattenere con queste centrali di distribuzione e di produzione di risorse rapporti o di buon vicinato o di sopraffazione violenta. Nell’uno e nell’altro caso i vantaggi per l’organizzazione sarebbero infinitamente meno profittevoli di un rapporto solidale. Nel primo caso perché il buon vicinato è un elemento aleatorio che muta col cambiare, appunto, del “vicino” e/o delle sue preferenze, e nel secondo caso perché si scatenano - di norma - reazioni repressive da parte del potere politico contro l’organizzazione. Una cooptazione dentro l’organizzazione di individui che rivestono ruoli chiave pubblici ed economici, garantisce invece un rafforzamento pacifico dell’organizzazione, una penetrazione determinante nei gangli politico-amministrativi ed economici di un certo contesto sociale (che sia un piccolo paese di montagna o uno stato) e una capacità di mimetizzazione assolutamente impossibili da ottenere in ogni altro caso.
Naturalmente questo non significa che l’uso della violenza per ottenere benefici sia eliminato dal metodo mafioso. Per niente. Solo che viene considerato quale elemento da usare, con cautela, solo per “convincere” i più riottosi ad accettare e decisioni del centro decisionale, nonché per dirimere, all’interno dell’associazione, elementi di criticità non risolvibili in altro modo (gestione del potere, delle zone di influenza, riorganizzazione delle gerarchie, ecc.). In sintesi, sula base di quanto detto fino ad ora, si potrebbe definire “organizzazione mafiosa” una associazione criminale - composta da membri appartenenti a tutti gli strati sociali (compresi quello politico, economico-finanziario, giudiziario, ecc.) tra loro uniti da un vincolo di mutualità e dall’osservanza di regole definite - il cui scopo è l’accaparramento illecito di risorse economiche e vantaggi personali e collettivi dei membri, ottenuti attraverso la segretezza, l’uso della violenza (e di altri mezzi illegali e legali).

Il metodo mafioso
Se dunque l’organizzazione mafiosa è un caso particolare di organizzazione criminale in cui convivono, solidaristicamente, individui appartenenti a categorie sociali diversissime, ciascuno con compiti assai evoluti di divisione del lavoro, dovrebbe essere conseguente che a tale tipologia di organizzazione particolare corrisponda un metodo particolare.
E infatti è così.
Una organizzazione criminale di truffatori, ad esempio, è distinta dal metodo particolare che usa per ottenere i suoi fini di arricchimento illecito: il raggiro. Che può prendere qualunque forma: dalla falsificazione di atti, al doloso mancato rispetto di una promessa.
Una organizzazione criminale di rapinatori di banche è distinta dall’uso del metodo della violenza più comune che si conosca: il ricatto effettuato con le armi in pugno.
Una organizzazione criminale di tipo terroristico si distingue per il metodo della violenza (spesso omicida) generalizzata contro obiettivi più o meno simbolici che tendono a piegare il “nemico”, per il raggiungimento dell’obiettivo, attraverso la paura e l’intimidazione.
Una organizzazione di sequestratori si distingue per l’uso di un altro metodo ancora: la costrizione violenta psicologica esercitata nei confronti di un soggetto terzo usando la minaccia di una violenza differita (di norma mortale) su un soggetto principale (l’individuo sequestrato).
Una organizzazione di corruttori usa principalmente il metodo, appunto, della corruzione (pubblica o privata che sia), cioè della offerta di denaro in cambio di informazioni, favori non dovuti e quant’altro. Di norma la corruzione non è di tipo violento, ma opera su una forma di “convincimento” esercitata dal corruttore nei confronti del corrotto contando, per esempio, sulla sua avidità.
Si potrebbe continuare con la lista ma, sinceramente, gli esempi paiono sufficienti a chiarire il concetto. L’organizzazione criminale di tipo mafioso - a differenza di quelle prima citate tutte “specializzate” in qualcosa - ha un metodo suo proprio.
E forse è già chiaro quale sia: il metodo mafioso altro non è che l’uso di tutti i metodi prima descritti (più tutti gli altri immaginabili e reali) a seconda delle circostanze.
Naturalmente ogni organizzazione criminale può usare - a seconda dei casi - una miscela di metodi diversi per il raggiungimento dei suoi obiettivi. Il punto è che resta prevalente “un” metodo, “una” modalità, che la caratterizza e la rende “specialistica” rispetto ad altre organizzazioni.
Non lo stesso può dirsi per l’organizzazione mafiosa che usa, invece, indifferentemente ogni possibilità, ogni “metodo” per raggiungere le sue finalità poiché non solo ha al suo interno “professionalità” utilizzabili in qualunque contesto (il killer per gli omicidi, il faccendiere per le corruzioni, il politico per il controllo delle decisioni pubbliche, il cancelliere per ottenere le informazioni riservate in un processo, il secondino per fare circolare la corrispondenza “privata” da e verso il carcere, ecc.) ma ha soprattutto centri decisionali “flessibili”. Cioè in grado di stabilire quando, dove e come applicare un metodo invece che un altro.
L’organizzazione, pertanto, non è “specialista” ma “generalista” e quindi è in grado di operare, senza soluzione di continuità, dall’ambito della piccolo racket delle estorsioni di quartiere alla gestione degli appalti pubblici passando per il controllo del traffico di droga, attraverso un ventaglio di possibilità virtualmente illimitate.
Sta in queste tre cose la “straordinarietà” dell’associazione mafiosa: nella flessibilità decisionale, nella sofisticata articolazione delle figure “professionali” degli aderenti, nella altrettanto sofisticata divisione del lavoro diretta da una centrale unificata (e flessibile nelle decisioni).  

Vantaggi e svantaggi dell’organizzazione mafiosa
Dovrebbe essera abbastanza chiaro, a questo punto, che una organizzazione criminale complessa e generalista come quella mafiosa, rispetto ad una organizzazione specialistica, ha diversi vantaggi e qualche svantaggio sia per gli aderenti presi singolarmente sia per l’organizzazione nella sua interezza.
I vantaggi individuali sono molteplici.
Per un aderente all’organizzazione, in virtù del vincolo di solidarietà esistente all’interno dell’organizzazione stessa e della straordinaria varietà di “figure professionali” presenti, esistono possibilità di ascesa sociale, di occupazione di posti di potere (politico e non), di prestigio, di arricchimento e poi di capacità di sfuggire alle maglie della legge, di aggirare normative limitanti ai suoi desiderata, eccetera che dipendono essenzialmente da tre elementi: le sue capacità “tecniche”, la sua ambizione e la sua capacità di controllare questa ambizione per evitare scontri che lo danneggino essendo il contesto mafioso un contesto dove la violenza fisica (fino a quella superma che è la morte) ha diritto di cittadinanza totale.
Gli svantaggi, lo abbiamo or ora visto, sono essenzialmente legati proprio all’uso della violenza come elemento dirimente - all’interno ed all’esterno dell’organizzazione - nei casi di conflitti non sanabili altrimenti, cosa che rende il contesto altamente pericoloso. Lo svantaggio supplementare - di gran lunga meno pericoloso e pertanto più facilmente gestibile - è, ovviamente, il rischio legato ad ogni esercizio di attività illecita, ovvero la sanzione dello Stato.
Il vantaggio essenziale per l’intera organizzazione mafiosa - di nuovo rispetto ad altre organizzazioni criminali - è dato invece da una delle sue caratteristiche principali, cioè che è la variegata composizione interna fatta sia da membri considerati a tutti gli effetti (quelli che hanno prestato giuramente) sia da membri collaterali ma in ogni caso organici. Avere “a disposizione”, per il centro decisionale dell’organizzazione, imprenditori e killer, faccendieri e spacciatori, politici e personalità dello spettacolo, delle forze dell’ordine, della comunicazione, della finanza, eccetera, garantisce una operatività dell’organizzazione a tutto campo e in qualsiasi campo. Poiché la forza dell’organizzazione è la sua capacità di penetrazione nel tessuto sociale e la sua ramificazione, gli “affari” sono virtualmente illimitati nel numero e negli ambiti; le possibilità di trarre profitto da qualunque operazione commerciale, lecita ed illecita, sono limitate solo dalla fantasia umana.
Stranamente lo svantaggio principale di una organizzazione di questo genere sta proprio nel suo punto di forza.
Più una organizzazione del genere è grande numericamente, ramificata ed estesa in tutti gli ambiti politici e sociali, più aumentano i rischi di errore e i casi di defezione, di “tradimento”, da parte dei membri aumentando contestualmente le possibilità, da parte delle forze dell’ordine, di sospettare, di tracciare movimenti, di controllare i membri stessi, addirittura di convincerli a passare dalla loro parte.
Indipendentemente dai motivi che causano la defezione di uno o più membri (non importa se effettivi o collaterali) quello che accade è che si aprono varchi dentro l’organizzazione che se non sono prontamente richiusi possono perfino portare alla distruzione dell’organizzazione stessa.
Essendo i membri dell’associazione, a vario titolo e a differenti “profondità”, a conoscenza dei meccanismi di funzionamento della stessa organizzazione nonché direttamente a conoscenza di cose e di uomini la catena che unisce i vari membri non solo può essere ricostruita ma, ovviamente, anche spezzata.
Per quanto la centrale decisionale dell’organizzazione possa essere protetta dal segreto, formata da elementi “insospettabili”, altamente gerarchizzata, essa è sempre direttamente o indirettamente collegata con ogni altro membro, anche il più esterno e collaterale. Se le forze dell’ordine, gli organi inquirenti, sono sufficientemente immuni da infiltrazioni mafiose hanno molte probabilità di risalire alla centrale decisionale dell’organizzazione anche a partire dal piccolo estortore di un periferico quartiere di una metropoli.

La struttura. Una rete di tipo informatico
Ha prodotto un grande effetto mediatico l’intercettazione telefonica del presunto capo della organizzazione mafiosa romana Carminati (perché, secondo quello che si è detto qui, tale è la “banda” di Carminati e Buzzi), nella quale questo riferiva di come vedeva la sua organizzazione. Egli usava una metafora assai suggestiva e parlava della sua organizzazione, cioè dei membri effettivi e operativi a pieno titolo, come di un “mondo di mezzo” che aveva a che fare col “mondo dei vivi”, cioè con esponenti del mondo politico, economico, finanziario, giornalistico, ecc., mettendolo in contatto col “mondo dei morti” intendendo con questo la parte di società composta prevalentemente da delinquenti di vario ordine e grado.
La rappresentazione di Carminati sembra assai credibile, ma se guardiamo meglio lo appare di meno.
Nella sua visione delle cose esiste infatti una vera e propria organizzazione, la sua banda, che gestisce traffici e affari illeciti servendosi - e servendo adeguatamente con ricompense ma anche punendo con sanzioni - il “mondo dei vivi” attraverso l’uso opportuno del “mondo dei morti”. Dà della sua organizzazione, pertanto, l’immagine di un mediatore tra parti che trae vantaggio da queste e fa trarre vantaggio a queste. A mio modo di vedere questa rappresentazione è, benché appunto suggestiva, fortemente limitante nella comprensione del fenomeno dell’associazione mafiosa. Per il semplice fatto che rappresenta una situazione in cui le tre parti in questione, i “vivi”, i mediatori, e i “morti” sono indipendenti l’una dall’altra e reciprocamente traggono vantaggio dalla collaborazione che è garantita dalla parte che media.
Nella realtà dei fatti, e non nelle teorie semisofisticate di un e terrorista fascista, le cose stanno diversamente.
L’organizzazione criminale romana è indiscutibilmente mafiosa perché è fatta, contemporaneamente, dalle tre parti citate con una delle tre in posizione dominante sulle altre due. La parte dominante, ovvero il centro decisionale - la struttura che identifica gli “affari” e cerca di realizzarli - è quella composta dal capo dell’organizzazione e dai suoi più stretti collaboratori. Tutti gli altri, che siano “vivi” o che siano “morti” ma che hanno ruoli e posizioni determinanti, ciascuno nel suo ambito, sono parte integrante dell’organizzazione vincolati da un rapporto di solidarietà, reciprocità e collaborazione personale od impersonale ma in ogni caso efficace e garantito dalla struttura decisionale. Pensare che un funzionario pubblico dell’ufficio tecnico di un comune messo a libro paga dalla struttura decisionale sia un membro esterno e quindi soltanto un “impiegato” che deve una certa prestazione dietro pagamento di un corrispettivo è un colossale abbaglio. Il funzionario fa di certo questo, ma egli è, in virtù del fatto di conoscere, frequentare e farsi pagare un extra dal centro decisionale, titolato anche a chiedere “favori”, piccoli o grandi che siano. Egli è titolato a “servirsi” della struttura per ogni altra necessità gli possa capitare. Naturalmente in un regime di reciprocità. Questo fa dell’amministratore a libro paga un membro di fatto dell’organizzazione, non un suo dipendente con ferie pagate, permessi per malattia e indennità di trasferta.
Pensare che un candidato alle elezioni (di ogni ordine e grado) “compri” pacchetti di voti da membri della struttura operativa e poi da questa si possa totalmente sganciare è un’altro colossale abbaglio. Il rapporto non si esaurisce con l’eventuale elezione, ma si approfondisce con un reciproco vantaggio in ogni altra occasione possibile. Questo fa del politico un membro di fatto, anche se non di diritto (cioè senza giuramenti e “punciute” varie) dell’organizzazione.
La struttura dell’organizzazione pertanto non assomiglia ad una torta a tre strati in cui quello centrale è il luogo di incontro e di scambio tra lo strato superiore e quello inferiore.
Assomiglia invece ad una rete informatica dove il server centrale mette in contatto tra loro - controlla, coordina e gestisce - ogni altro terminale facente parte della rete. E non importa se un terminale elabori calcoli per creare immagini, un altro funga da antivirus della rete, un altro ancora cataloghi merci in entrata ed in uscita. Ciascuno ha una sua funzione che, all’occorrenza, può essere utilizzata dal server centrale per l’intera rete, per una parte di essa o solo per sé stesso.  

La contestabile idea della “mentalità” (o della cultura) mafiosa e quella dell’”Antistato”.
Di fronte a questo quadro mi pare assai difficile parlare di “mentalità mafiosa” come mi pare assai difficile parlare di mafia come “Antistato”, due delle opinioni assai diffuse sul fenomeno dell’organizzazione mafiosa.
Se per “mentalità mafiosa” si intende la predisposizione antropologico-culturale di un individuo o di gruppi di individui o addirittura di intere popolazioni territorialmente circoscritte, nel considerare la prevaricazione violenta o la corruzione, quali cose “normali” e pertanto accettabili da chi non fa parte dell’associazione allora questo assunto è, se non completamente falso, almeno fortemente opinabile.
Poiché qualunque individuo, gruppo di individui o intere popolazioni, di fronte alla violenza o alla corruzione ha un atteggiamento che dipende dalle circostanze di tempo, di luogo, di cultura (personale e collettiva), di ricchezza (o di povertà) presenti, eccetera eccetera. Elementi e condizioni talmente numerose e per giunta non facilmente misurabili (tutte assieme) che è decisamente impossibile stabilire quadri sinottici se non a prezzo di generalizzazioni eccessive.
Più modestamente, e realisticamente, si potrebbe invece dire che la violenza e la corruzione, finalizzate all’appropriazione di ricchezze non altrimenti ottenibili, sono elementi diffusi ovunque e che il loro grado di accettazione, individuale o collettiva, dipende dai vantaggi, o dagli svantaggi, che si realizzano, veri o presunti, in determinate circostanze. L’organizzazione e il metodo mafioso pertanto, quand’anche fossero stati generati in ambiti territoriali circoscritti, è tendenzialmente universalistico purché esistano in una società data sufficienti individui di tutte le categorie sociali disposti ad una forma di collaborazione reciproca finalizzata all’ottenimento di benefici individuali o collettivi attraverso l’uso di mezzi illeciti (violenza, corruzione, ricatto, ecc.).  
Non è una questione antropologica. E’ una questione di convenienza e di razionalizzazione.

Ancora meno credibile appare l’idea che l’organizzazione mafiosa sia un “Antistato”. Questa definizione -, il cui significato cambia a seconda di chi la scrive come accade per l’espressione prima trattata - più o meno, si basa sull’idea di Stato secondo la definizione del Diritto Costituzionale che prevede per la sua esistenza tre elementi essenziali: un popolo, un potere coercitivo monopolistico per i membri del popolo e un territorio entro i cui confini questo esercizio della forza è considerato legittimo. Pertanto l’organizzazione mafiosa, en gros, sarebbe uno stato perché ha propri membri e su questi (ma anche sugli altri non membri), entro un determinato territorio, esercita la forza. In questo modo la mafia viene direttamente in concorrenza con lo Stato vero e proprio nell’intento di sostituirlo.
Sulla base di tutta la storia delle organizzazioni mafiose, italiane, americane, cinesi e di ogni altra parte del mondo, non pare che questa idea sia molto fondata.
L’organizzazione mafiosa non è né in concorrenza con lo Stato né antitetica a questa, qualunque sia lo Stato (inteso come regime politico). E’ invece osmotica allo stato e filogovernativa sempre. Qualunque sia il governo al potere e il tipo di regime vigente.
Di fatto l’organizzazione mafiosa è di tipo parassitario: non ha alcun interesse a sostituirsi allo Stato poiché senza di questo essa stessa diventerebbe Stato e pertanto si arriverebbe all’assurdo di legalizzare l’illegalizzabile azzerando qualunque profitto che proprio sull’intrinseca illiceità dell’azione mafiosa si basa. Se il racket dovesse essere legalizzato altro non sarebbe che un’altra tassa di stato. Se l’omicidio per il mancato rispetto di un patto dovesse essere legalizzato si tratterebbe di nient’altro che dell’introduzione della pena di morte per alcuni “reati”.
La mafia non è antistato. E’ una forma di parassitismo a spese dello Stato.
E’ un’altra cosa.
E se si conviene che sia una forma di parassitismo è utile sgombrare il campo dall’illusione secondo cui questo parassitismo fiorisce nelle forme di Stato democratiche. Organizzazioni mafiose esistevano, sopravvivevano e addirittura prosperavano, anche in tempi di Stati affatto democratici e addirittura durante i tempi in cui ha dominato in Italia un sistema dittatoriale fascista.

Per concludere
Non credo di avere detto nulla di particolarmente nuovo sulla questione mafiosa. Ho scritto questo articolo solo per due motivi. Entrambi personali.
Il primo è la speranza che qualche amico lettore, magari abbastanza confuso dal martellamento mediatico di queste settimane a proposito di “Mafia Capitale”, voglia provare a cercare di capire un poco di più su un argomento tanto vasto e complesso come quello del fenomeno mafioso incuriosendosi attraverso quello che ho scritto ed esercitando un minimo di critica sulle interpretazioni giornalistiche con cui viene in contatto.
Il secondo motivo è che è stato una specie di sfogo.
Proprio mi sono stufato di sentire parlare di “mentalità mafiosa” tipica dei siciliani o dei calabresi, oppure del fatto che Roma (o Milano o Perugia) non possano, per chissà quale motivo, essere sede di fenomeni mafiosi autoctoni o d’importazione.
Come mi sono stufato di sentire parlare di mafia come se si trattasse di un castigo di dio e non di una delle tante, troppe, manifestazioni delle tendenze criminali che gli esseri umani hanno da sempre e a qualunque latitudine.

giovedì 11 settembre 2014

Il medio evo tra noi

Il marchese di Montezemolo mentre individua un nuovo manager
A sua eccellenza il marchese di Montezemolo, leader supremo della Ferrari fino a ieri, nonché fondatore del partito che ha vinto le elezioni di topolinia cioè "Italia Futura", Marchionne darà 27 milioni di euri di buonuscita (di cui 13 per un patto di non concorrenza) pur di liberarsene.
Negli ultimi dieci anni pare ne abbia guadagnati un centinaio. Una cifra congrua per gli altissimi servigi che quest'uomo ha reso al mondo.
Lui, il marchese, e i suoi pari sono chiamati "manager". E i manager sono l'aristocrazia del XXI secolo.
Quella che gestisce i fondi di investimento, le grandi imprese (pubbliche e private), le banche. Il potere insomma, quello vero, quello economico.
Quella cui appartine il già citato marchese è una aristocrazia a dimensione culturale mondiale.
Sempre in viaggio da un punto all'altro del globo per affari e del globo conosce solo le suites a cinque stelle degli alberghi nelle città dove alloggia. Ha legami fortissimi con la politica sia quella del suo paese di origine sia quella dei paesi dove lavora. E ne influenza pesantemente le scelte.
Non serve un "paese" ma l'impresa per cui in quel momento lavora.
Parla una lingua unica per capire e farsi capire, un nuovo esperanto: il profitto. E, infine, può contare - per la propria sopravvivenza, per il proprio successo, per il proprio dominio - su un'arma infallibile: il consenso che gli viene dato da tutti gli altri esseri umani, i quali, nella sua lingua, sono chiamati "consumatori".

A differenza dell'aristocrazia classica che ha dominato l'Europa per un millennio, l'aristocrazia dei manager non è dinastica, è meritocratica.
Non si deve essere figli di manager per diventare manager, il titolo non viene trasmesso per eredità. Manager si diventa accedendo, in un modo o nell'altro, a quegli ambiti dove si insegna l'ideologia del capitale, della competizione, del mercato e del consumo, che si tratti di università o di luoghi di lavoro.
E' una aristocrazia "meritocratica" si diceva: non si guarda alle origini del manager, ma alla sua capacità di produrre profitto in qualunque condizione e a qualunque latitudine. Il valore, il "merito", del manager è dato dalla capacità che ha di creare, consolidare, aumentare il profitto di una azienda (quasi sempre non sua) con qualunque mezzo a sua disposizione che si chiami pubblicità o che sia lobbying sulla politica.
Ed è questo, questo suo essere meritocratica e perciò accessibile a chiunque abbia "merito", che rende la nuova aristocrazia, agli occhi del resto della popolazione umana (i "consumatori"), accettata con entusiasmo, attraente, invidiata, omaggiata. Cosicché pochi la mettono in discussione e ancora meno ne mettono in discussione i principi sui quali fonda il suo potere, primo tra tutti il "libero mercato" ormai, più che un principio, il nuovo dio unico.
Perché manager, appunto, di diventa, non si nasce. E dunque chiunque può diventare come Montezemolo o come Marchionne o come Steve Jobs. Basta avere il "merito", le idee, la giusta ambizione.
Questa condizione, questo suo essere accettata universalmente, salverà la nuova aristocrazia dal disastro cui quella classica andò incontro a partire dalla presa della Bastiglia, e manterrà tutti gli altri ai suoi ordini. Perché c'è il loro consenso e il loro plauso.
Poco importa se tutti gli altri vengono affamati e illusi dai nuovi aristocratici; il sogno di diventare come loro, come tutti i sogni, non si può spegnere, anzi si alimenta perché potentissimo è il richiamo e l'adesione ai "valori" che esprimono i manager e che ogni giorno sono ripetuti fino all'ossessione: il successo, le capacità, la competizione, il coraggio delle sfide.
Poco importa questo e ancora meno importa scoprire che questo mondo nel quale viviamo è sempre più simile a quello di mille anni fa. Diviso in due. Mille anni fa da un lato c'era l'elite aristocratica e dall'altro la massa plebea. Oggi da un lato c'è l'elite manageriale e dall'altro la massa dei "consumatori".
Il medio evo è tornato.
E sta bene così.

venerdì 5 settembre 2014

Teoria e pratica delle "riforme strutturali". Ovvero come tornare al medioevo con l'aiuto dei predicatori.

Padre Mario prima e dopo la predica

Anche oggi - come ogni giorno da una quindicina d'anni e forse più a questa parte - abbiamo ricevuto la quotidiana razione di prediche sulla necessità impellentissima di fare le "riforme strutturali". Stavolta il predicatore è stato padre Mario, il patriarca della BCE.
Padre Mario apre bocca raramente ma quando lo fa, in automatico, la prima cosa che gli viene da dire è: "si debbono fare le riforme strutturali". Lo  dice all'autista, al barbiere, alla moglie, ai vicini di casa e se lo ripete da solo. Appena sveglio strabuzza gli occhi, si stiracchia, apre la bocca per sbadigliare e, invece che sbadigliare, dice: "buongiorno mondo! oggi si debbono fare le riforme strutturali". Poi, come sempre, silenzio, dolore e rassegnazione si dipingono sul suo cereo e poco passibile volto in attesa di incontrare l'autista e salutarlo col solito "ciao caro, passa col rosso se necessario, oggi si debbono fare le riforme strutturali". Insomma, un vero missionario predicatore col sacro fuoco dentro, padre Mario.

Se state cercando di capire cosa intenda padre Mario - o chiunque altro - ogni volta che parla di "riforme strutturali", lasciate perdere.
Ciascuno a quella espressione dà i contenuti che meglio gli aggradano e, comprensibilmente, c'è di tutto: dal cambiare le Costituzioni, alla liberalizzazione del "mercato" del lavoro, alla riduzione della pressione fiscale, alla sistemazione del tetto pericolante.
Elencarle tutte sarebbe impossibile e anche, credo, abbastanza inutile.
Sommamente utile invece, mi parrebbe, cercare di capire il motivo per cui queste "riforme strutturali" debbano essere fatte e perché. E, soprattutto, a quale principio debbano ispirarsi. Perché, vedete, io appartengo a quella categoria di persone che sono convinte che se si capisce la teoria, si capirà (meglio) anche la pratica.
E la teoria che sta dietro alle "riforme strutturali" è quella che - in un ineguagliato capolavoro di sintesi - enunciò una decina di anni fa il defunto padre dell'euro, sua eccellenza Tommy Padoa-Schioppa. Con queste parole: "Nell' Europa continentale, un programma completo di riforme strutturali deve oggi spaziare nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato del lavoro, della scuola e in altri ancora. Ma dev'essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l' individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità." (qui il testo integrale)

Capite bene, cari amici, che la questione non è da poco.
Il diaframma di cui parla Tommy è quella cosa volgarmente e incomprensibilmente chiamata "Stato sociale", ovverossia tutta quella serie di strumenti (politiche pubbliche) che gli Stati europei occidentali, soprattutto dal secondo dopoguerra in poi, hanno escogitato per rendere la vita meno difficile agli uomini. Si badi bene: a tutti gli uomini certo, ma soprattutto a coloro i quali erano stati meno fortunati nel venire al mondo su questo simpatico - anche se alle volte un poco pericoloso e un poco squallido - pianeta.
Meno fortunati perché nati in famiglie povere o meno fortunati perché nati con malformazioni (essì, cari miei, la natura a volte, come diceva il mio filosofo preferito, "è una puttana") oppure meno fortunati perché per vivere dovevano elemosinare il favore e la pietà di qualche potente.
Per rendere meno schifosa la vita a questi individui (che pochi non erano e, forse, non sono) lo Stato cambiò natura: da strumento di potere e di controllo di alcune classi dominanti (l'aristocrazia e la ricca borghesia, tanto per dire), si trasformò in strumento di integrazione e di inclusione sociale. E cercò (e trovò) un sacco di modi per rendere effettiva questa trasformazione.
Per esempio istituì l'istruzione di base obbligatoria e gratuita per tutti (deficienti, o presunti tali, e morti di fame compresi) caricando sulle casse pubbliche le spese per questa titanica operazione. E caricò sulle casse pubbliche pure il costo dell'assistenza sanitaria gratuita per tutti (menomati dalla nascita e infortunati sul lavoro compresi). E non contento di questo decise che era tempo di ridurre lo straripante potere di contrattazione dei padroni (ops, i datori di lavoro, volevo dire) nei confronti dei lavoratori con i contratti collettivi di lavoro. Si diede pena anche di portare l'energia elettrica fino all'ultimo centro abitato della più disabitata delle montagne senza guadagnarci un centesimo (cioè senza fare profitto, anzi perdendoci) per il semplice gusto di non lasciare indietro chi era nato in quei posti invece che in una scintillante città. E decise, perfino, che il lavoro non era una "merce" e perciò gli individui meno fortunati dovevano avere un salario che gli garantisse la dignità di un essere umano libero e non di uno schiavo e, quindi, non potevano essere pagati solo per quello che facevano. Dovevano essere pagati anche per quello che erano: esseri umani. Non bestie.

Ora, tutte queste belle cose sono appunto quel "diaframma" di cui parla Tommy. E ha ragione Tommy. Queste cose, nel tempo, hanno allontanato l'individuo dal contatto diretto con la "durezza del vivere" con cui si era confrontato dacché era comparso sul pianeta. E cioè: la lotta per la sopravvivenza, la necessità di aguzzare l'ingegno per sfuggire alle cattiverie della natura, la difficoltà della malattia, della perdita del lavoro e, insomma, tutta una serie di provvidenziali seccature che sono alla base dello sviluppo  e dell'affinamento dello spirito imprenditivo dell'essere umano. Perché, cari miei, sono le disgrazie che aiutano a crescere, mica la consapevolezza dei propri limiti. La ragione del fare le "riforme strutturali", pertanto, è quella di riportare l'individuo alla sua primigenia natura (cioè di arzillo conquistatore e dominatore del mondo) che è stgata improvvidamente corrotta dalla solidarietà sociale elevata a modello di stato.
Di fatto lo Stato sociale, secondo Tommy Padoa-Schioppa, ha rammollito l'individuo (europeo), l'ha reso un "bamboccione", uno che non fa una mazza da mane a sera e si aspetta che sia lo Stato (sociale) a camparlo.
La domanda a questo punto è: cosa ci vuole per rendere di nuovo l'homo europeus in grado di sostenere le sfide che la globalizzazione (cioè, per capirci, il confronto con paesi dove la manodopera di un essere umano è valutata tanto quanto quella di un mulo da soma) ci impone?
Ma ovvio! Ridurre il diaframma. Cioè smantellare lo Stato sociale. Cioè riportare tutto a 70, o meglio ancora, cento o duecento anni fa. Cioè fare le "riforme strutturali". Qualunque cosa queste siano, purché siano informate a quel principio più sopra marcato in grassetto.
Non l'estensione dello Stato sociale a tutti i paesi della terra deve essere l'obiettivo della politica, ma, più realisticamente, la sua riduzione e, possibilmente, il suo smantellamento. Per tornare ai bei vecchi tempi.
Quelli che, come ci ricorda sempre il grande defunto Tommy, erano alla base del pensiero liberale di un altro grande defunto, Luigi Einaudi, il quale ammoniva con le sue "prediche inutili" (per fortuna) che tutto sarebbe andato per il meglio se si fossero lasciate "funzionare le leggi del mercato, limitando l' intervento pubblico a quanto strettamente richiesto dal loro funzionamento e dalla pubblica compassione".
Già, la "pubblica compassione" e le leggi del "libero" mercato. Il migliore pensiero cristiano unito al migliore pensiero liberale. Quei due pensieri dai quali, secondo un non ancora defunto padre di non si sa che cosa (di nome Bertinotti), si deve ripartire per un cammino di "liberazione".
Su, amici, forza,
in cammino e domani diamoci sotto con le "riforme strutturali".
Non lasciamo solo padre Mario il predicatore.

martedì 17 giugno 2014

UNO STATO "MODERNO". OVVERO DEL CORPORATIVISMO CAPITALISTA

Ma se ora questa borghesia sta mutando rivoluzionariamente la propria natura e tende a rendere simile a sé tutta l'umanità - fino alla completa identificazione del borghese con l'uomo – quella vecchia rabbia e quella vecchia indignazione non hanno perduto ogni senso?
P.P. Pasolini 

Chi dice lavoro, dice borghesia produttiva e classi lavoratrici delle città e dei campi. Non privilegi alla prima, non privilegi alle ultime ma tutela di tutti gli interessi che si armonizzano con quelli della produzione e della nazione. 
B. Mussolini

Semplificazione e semplicità

Quello che non manca a Renzi è l'orizzonte verso cui puntare. Il punto di arrivo della sua strategia politica. Una visione dell'Italia alla fine del famoso (o famigerato) percorso ad ostacoli delle "riforme".
E' una cosa che manca, del tutto o in parte, ai suoi oppositori interni ed esterni.
E' questo che lo rende forte.
Prima della indubbia capacità di muoversi a suo agio nella politica nazionale e internazionale. Prima della indubbia capacità di essere in grado di riconoscere subito chi è amico e chi nemico e di neutralizzare quest'ultimo. Prima della sua capacità di esercitare fascino, entusiasmo e perfino identificazione.
La sua idea di Italia da venire è semplice ma non banale. Ed è comprensibile a tutti, senza distinzioni: a ricchi e poveri a salariati e rentiers, a marginali e integrati, a giovani e vecchi.
In estrema sintesi la sua idea è questa: fare dell'Italia un paese "moderno", in grado di reggere la sfida degli altri paesi europei ed essere motore di una riforma europea che renda l'Europa un competitore adeguato ai colossi che dominano il panorama internazionale.
E per fare questo la via da seguire è una sola, si chiama semplificazione e si declina in tutti gli ambiti:
  • semplificazione del mercato del lavoro (renderlo meno "ingessato" capace di garantire quella flessibilità e precarietà che sia in equilibrio tra esigenze dei datori di lavoro e sopravvivenza dei lavoratori);
  • semplificazione della burocrazia, odiata da tutti, per renderla il più possibile disconnessa dal principio del controllo ex ante per indirizzarla verso il principio ex post (cioè: le autorizzazioni si danno subito e poi, eventualmente, si verifica che tutto sia conforme a poche ed essenziali leggi. Vale per il commercio, come per l'industria, come per le licenze edilizie);
  • semplificazione del fisco per trasformarlo da giungla di leggi e regolamenti a piccolo breviario "facilmente traducibile in inglese";
  • semplificazione delle regole di governo riducendo gli spazi elettivi (senato, consigli provinciali, ecc.) per dare più spazio al principio della "reductio ad unum", cioè tutto affidato ad una persona (capo del governo, sindaco, ecc.) che sia facilmente riconoscibile e osannabile o punibile a seconda dei risultati, reali o percepiti, che ottiene;
  • semplificazione della "giustizia" per renderla più veloce e meno invasiva;
E' una nuova visione della "deregulation" di reaganiana memoria: il "laissez faire" con qualche controllo di stato appropriato che garantirà il buon funzionamento di tutto il sistema.
É facile distinguere in questo programma una idea di fondo. Ed è quella che il sistema capitalistico non è in discussione e non ha alternative. Non è fatto male, non produce disastri, crisi e scompensi di eguaglianza (economica e sociale innanzitutto) perché intrinsecamente il sistema prevede queste cose. No, il sistema va bene: produce crescita, cioè, nel linguaggio ormai standardizzato, benessere e progresso sociale. Ed è un sistema virtualmente universale, adattabile ad ogni ambiente umano e che basa la sua forza sulla libera iniziativa di  chi ha le idee e la giusta ambizione per realizzarle.
Se ogni tanto funziona male è perché si debbono aggiornare alcune cose, si deve rendere "moderno" e più efficiente lo Stato.

Non ha molta importanza scoprire che la forbice tra i ricchi e i poveri negli ultimi trenta anni a base di "deregulation", privatizzazioni e distruzione delle regole post "new deal", si sia allargata a favore dei ricchi in maniera sconcertante.
Non ha importanza sapere che i più imponenti flussi di denaro (e quindi di potere) nel mondo della globalizzazione sono gestiti  da oligarchie di poche migliaia di soggetti indipendenti da ogni autorità più o meno rappresentativa, più o meno democraticamente eletta.
Non ha importanza accertarsi che la libera concorrenza è un concetto che non esiste in natura perché il più delle volte sono gli oligopoli che dominano.
Non ha importanza sperimentare che le devastazioni ambientali sono il prodotto di uno sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali (dall'acqua, alla terra, all'aria) ai fini del nuovo dio unico che si chiama profitto.
Non ha importanza sapere che i flussi migratori non sono il frutto di un turismo di massa ma l'attrazione ovvia di milioni di esseri umani che vivono in condizioni di disastro verso terre popolate da esseri umani che vivono al di sopra delle proprie possibilità e che lottano contro l'obesità mentre i primi lottano per un bicchiere d'acqua.
Tutto questo non importa perché se questo accade è soltanto perché non si è stati sufficientemente attenti a regolare alcune cosette del sistema.

Il corporativismo capitalista, ossia del pensiero unico.

Questi elementi, approfodibili da tutti con poco sforzo, e qui elencati in maniera semplificata (alla maniera di Renzi), non sono contemplati dal modello di società del nostro capo di governo e dei suoi pari diffusi su tutta la terra.
E non sono contemplati neppure da chi lo vota, poichè chi lo vota vuole solo una cosa: tornare al benessere, al consumismo, cui è stato abituato per decenni e che gli è stato sottratto, quasi d'un colpo, dalla crisi del 2008. Crisi provocata, nell'immaginario collettivo italiano, non dal capitalismo finanziario, ma dalla obsolescenza del "sistema Italia".
E se per tornare ai bei tempi degli anni ottanta e novanta si devono fare le "riforme" che si facciano presto.
La sintonia tra Renzi e l'elettorato italiano è la sintonia che c'è, d'altra parte, in ogni paese europeo e negli Stati Uniti tra governanti e governati indipendentemente dal colore politico di chi governa poiché, alla base, il colore è unico e sono solo sfumature che fanno (o non fanno) la differenza.
L'Italia ha bisogno più di altri di queste "riforme" (le semplificazioni di cui si parlava prima). E in Italia queste riforme le può garantire solo uno che abbia le idee chiare, che non si faccia prendere in giro e che abbia la giusta tenacia per combattere i "poteri forti" che, in questo caso, sono la "vecchia politica" da rottamanre, i sindacati, la burocrazia dei brontosauri, il fisco rapace, eccetera.
E' un programma semplice da ricordare, in linea con le aspettative di chiunque e, in assenza di meglio, largamente condiviso.

La cosa interessante che c'è da notare in questo capitalismo "moderno" ed efficiente sognato dai nuovi giovani liberisti alla Renzi è che questo modello ha molto di fascista.
Non nel senso dell'olio di ricino o della limitazione delle libertà. Affatto. Anzi le libertà e i diritti (in ispecie quelli individuali) non solo non vengono messe in discussione ma vengono ampliate e largamente garantite nei limiti del possibile.
E' un capitalismo fascista nel senso del corporativismo.
Alla lotta di classe, alla contraddizione di interessi collettivi, si è sostituita l'idea che tutti (capitalisti e salariati, borghesi e proletari) hanno un ruolo nella società e che se esercitano bene questo ruolo il benessere non sarà di una singola classe o categoria o ceto: sarà un benessere collettivo.
Il rafforzamento di questa idea proviene anche, se non soprattutto, dal cambiamento degli stili di vita negli ultimi quaranta anni. Pasolini lo aveva previsto con la consueta capacità visionaria. Omologati, grazie al benessere consumistico, tutti gli uomini all'idea unica di "uomo borghese", che ne sarebbe restato della necessità di cambiare il mondo?  Se tutti si identificano, a torto o a ragione, con la "classe media", che senso ha volere cambiare il sistema? Nessun senso, ovvio. L'idea che esistano nella società interessi sociali in contraddizione tra loro è tramontata perché chi aveva interessi contrapposti ad altri (nello specifico il lavoro dipendente) considera i propri interessi egregiamente rappresentati da chi prima era considerato un "nemico".
Ecco quindi che quando Renzi (o Hollande o Merkel) parla ai propri sostenitori parla di "Italia" non di "lavoratori", parla di "consumatori" non di salariati, parla di "paese" o "patria" e non di  interessi di classe. Parla, cioè, a tutti, non a una singola parte. Tutti devono fare la "loro parte" perché il sistema sia più efficiente e quindi crei (secondo questa logica) più benessere collettivo.
Gli interessi si "armonizzano", qualora ce ne fossero ancora in contraddizione, con l'interesse superiore della nazione o meglio, con gli interessi superiori del sistema. Mussolini docet.
Quella del corporativismo capitalista è il "pensiero unico" che si estende dalla California a Hong Kong. Che ha i suoi santuari nei partiti dominanti (che si chiamino socialisti, democratici, democristiani o repubblicani non ha importanza) e che ha un seguito maggioritario dovuto proprio alla condivisione di questa idea da parte di una "classe media" di cui tutti si sentono parte. La lotta politica è pertanto lotta di uomini e non di idee. Vince chi è meglio attrezzato, umanamente e tecnicamente, per conquistare la "classe media".
In italia ha vinto Renzi adesso, in Spagna Zapatero una decina di anni fa, in Gran Bretagna Blair una ventina di anni fa, Obama negli Usa qualche anno fa. Idee, politiche economiche e stili di comunicazione pressocché identici.
E vincenti.


Chi si oppone a questo modello e con quali modelli alternativi?

La crisi del 2008 ha scatenato un evento sociale pericolosissimo, che non è la povertà e non è neppure la perdita di potere degli Stati di fronte alle oligarchie finanziarie (i famosi "mercati"). L'evento è di tipo sociologico e riguarda la sensazione (vera o presunta) della perdita dello status di "classe media" di intere fasce di popolazione che segue alla perdita del potere di acquisto.
Un incubo per milioni e milioni di famiglie.
La risposta politica a questo scadimento sociale è stata variegata nei vari paesi europei.
In Italia ha trovato una risposta nel grillismo ma in molti altri paesi sta trovando risposta nel nazionalismo parafascista o dichiaratamente fascista.
Lungi dal dare la responsabilità della crisi al sistema finanziario-capitalista la colpa di questa e delle sue conseguenze è stata data agli immigrati, alla politica che non difende gli interessi nazionali, alla corruzione, ecc. ecc. L'effetto è quello di una rinascita dei nazionalismi (con venature razziste più o meno marcate).
Il modello proposto da questi partiti è pertanto quello, ancora una volta, corporativo-capitalista con una spiccata impronta nazionalista (chiusura delle frontiere alla immigrazione, dazi dognali, riscoperta della identità nazionale, religiosa, eccetera).
Questo per quanto riguarda il fronte di destra dello spettro politico.
A sinistra è diverso.
A sinistra c'è il caos. Perduta la bussola marxista della lotta di classe (e perduta anche la classe che non si considera più classe operaia ma classe media in una ridefinizione totale della "coscienza di classe") si stenta a proporre un modello alternativo di società e di economia. E si stenta anche a sopravvivere. A fronte del caso greco dove Syriza ha raggiunto consensi di grande riguardo, in tutto il resto del continente la sinistra non "moderata" non riesce a riscuotere grandi successi. In  Italia poi non è in declino: è praticamente scomparsa.
L'arsenale culturale e politico della sinistra è esausto e non esercita più alcun fascino. Perduta nel dibattito incessante (e improduttivo, politicamente parlando) tra keynesimo e rivoluzione, la sinistra - o quel che ne resta - non riesce ad elaborare alcun modello alternativo di società e di economia in grado di attirare voti e diventare forza politica centrale nel dibattito europeo.

Alla fine di questo lungo ragionamento mi pare di individuare due veri soggetti politici, due aree di riferimento, che si contenderanno nei prossimi anni le guida politica italiana ed europea: il corporativismo capitalista internazionalista (fatto di oligarchie extranazionali) e il corporativismo capitalista nazionalista e fascista.
Al momento mi pare ci si possa augurare solo lo scontro frontale tra queste due aree e il collassamento dell'idea di fondo (il corporativismo capitalista). Forse tra le macerie si troverà qualcosa su cui ricostruire una società un poco meno disgustosa.
Forse, si capisce.



P. S.: una bibliografia mi sembra d'obbligo visti gli argomenti trattati. Breve, non esaustiva, ma vale la pena ricordarla.

Zygmunt Baumann, Dentro la globalizzazione - le conseguenze sulle persone, Laterza
Giuseppe Berta, Oligarchie, Il Mulino
Luciano Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi
Pier Paolo Pasolini, Scritti Corsari - Garzanti






domenica 11 maggio 2014

A nostra insaputa. Promemoria sulla cessione di sovranità (a proposito di elezioni europee)

Nella foto l'Europa, trasportata da mani amiche, verso il futuro
Uno degli argomenti di cui si dibatte da anni, in particolare in questi anni di crisi, è quello della famosa "cessione di sovranità" degli stati nazionali in favore dell'Unione europea. E' un argomento che solleva sempre polemiche e che è comune a tutto lo spettro politico: dall'estrema destra all'estrema sinistra.
La faccenda è abbastanza complessa ma, tagliando con l'accetta, possiamo dire che, indipendentemente dal colore politico di chi di queste cose discute, in campo ci sono tre posizioni.  
La prima è quella europeista a tutti i costi. Questa posizione (ufficialmente) considera il processo di unificazione europea, monetario economico e politico, non solo ineluttabile ma necessario e questo poiché i singoli stati europei non sono in grado di reggere le sfide di potenze - emergenti e non - come la Cina, la Russia, gli stessi Stati uniti. In questo senso l'unica possibilità che hanno gli stati nazionali di sopravvivere alle nuove sfide globali è quella di "unificarsi" in qualcosa di simile ad una Federazione o Confederazione.
Costi quel che costi.
La seconda posizione è espressa da quanti condividono la necessità di una Unione europea che diventi anche politica ma non sono disposti al "costi quel che costi". Questi mettono in campo una serie di distinguo che ruotano essenzialmente attorno a due elementi: il primo è la questione della "rappresentatività" politica (di fatto inesistente nelle istituzioni europee che contano, cioè la Commissione e il Consiglio) e il secondo è che l'attuale linea politica ed economica dell'Unione è troppo spostata a destra, cioè troppo "liberista" e troppo permeabile a gruppi di pressione di origine industriale/bancario/finanziaria incontrollabili ed incontrollati. A questi due elementi, recentemente, se n'è aggiunto un terzo. Ovvero la decisiva e spropositata influenza che ha nelle decisioni della Commissione e della BCE la "locomotiva d'Europa", cioè la Germania.
La terza posizione è quella che nega ogni legittimità ad un processo di unificazione europea nel nome delle identità nazionali, delle differenze etnico-linguistiche, degli interessi "nazionali", ecc. Per costoro l'Europa è uno spazio geografico in cui tutti condividono molto ma quel molto non è sufficiente, ne mai lo sarà, per rendere l'Europa uno Stato.
Queste tre posizioni in linea di massima sono riconducibili anche a partiti politici ma di fatto sono trasversali e ogni formazione ha al suo interno, più o meno in evidenza, esponenti e militanti che si rifanno alle tre posizioni prima evidenziate.
Ora, indipendentemente da come la si pensi sulla questione (io, lo dico per chiarezza, mi rifaccio alla seconda posizione) forse è poco noto o per nulla noto che la posizione dell'europeismo "costi quel che costi" è una posizione che in Italia è stata costituzionalizzata.
Cioè non è, teoricamente, neppure materia di discussione.
Non lo è (o non dovrebbe esserlo) per diversi motivi, ma uno in particolare: nel 2001 si votò attraverso un referendum proprio sulla questione della cessione di sovranità in favore dell'Unione europea. E il risultato di quel referendum fu che l'europeismo vinse. Vero è che i votanti furono appena il 35% degli aventi diritto, ma è altrettanto vero che in una democrazia decide chi vota, non chi si astiene.
Il referendum cui mi riferisco, per chi ancora non avesse afferrato, è quello del 2001 sulla riforma costituzionale del Titolo V della Costituzione. Quella riforma, voluta ed approvata dal Centrosinistra che governò dal 1996 al 2001, per cercare di frenare il "pericolo" leghista/indipendentista e berlusconiano/populista aveva due parole d'ordine: federalismo e devoluzione. La riforma ridisegnava le competenze tra Stato, Regioni, Province e Aree metropolitane nel senso di un maggiore decentramento del potere centrale.
Senonché, in mezzo ad un mare di parole, un articolo fondamentale si apriva con un incipit che nulla c'entrava con la questione federalista/devoluzionista e che ha consentito, un decennio dopo, di riprendere il discorso con la riforma costituzionale del "pareggio di bilancio".
Cito di seguito il primo comma dell'articolo in questione.

"Art. 117
La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonchè dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali."


Come si capisce bene la frase costituzionalizzata prevede - a questo punto - quattro fonti legislative primarie: il Parlamento nazionale, i Consigli regionali, l'Unione europea (l'"ordinamento comunitario") e i non meglio identificati "obblighi internazionali" (che potrebbero essere i Trattati internazionali, ma questo si sapeva, o meglio ancora gli accordi fatti dall'Italia in sede di istituzioni internazionali vincolanti, per esempio, in sede Nato).
Dovrebbe essere abbastanza chiaro che l'includere tra le fonti di diritto interno anche "i vincoli derivanti" da legislazioni/normative/accordi non interni è una cessione di sovranità a tutti gli effetti.
È opportuno segnalare - en passant - che artefici principali di quella riforma costituzionale sono stati gli ultimi due governi della XIII legislatura e cioè il Governo D'Alema II e il Governo Amato II entrambi sostenuti dalla stessa maggioranza e cioè: Democratici di Sinistra, Partito Popolare Italiano, Verdi, Partito dei Comunisti Italiani, Socialisti Democratici Italiani e altre formazioni politiche (per modo di dire) con nomi variopinti.

Una volta aperta la breccia nella Costituzione, in fatto di cessione di sovranità, è venuto assai semplice al governo del salvatore della Patria, Mario Monti, nell'aprile del 2012, e a tempo di record, allargare la breccia fino a farla diventare una vera e propria porta spalancata. Erano tempi di "emergenza nazionale" e tutti i partiti (Pd, Pdl e ogni altra sorta di formazione) non avevano altra fregola che cambiare la Costituzione secondo il dettatino della Banca Centrale Europea.
La Legge costituzionale del 2012 che introduce il pareggio di bilancio in Costituzione, infatti, rincara la dose.
Ecco altri tre articoli modificati (cito solo il primo comma).

Art. 81
"Lo Stato assicura l'equilibrio tra le  entrate  e  le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e  delle fasi favorevoli del ciclo economico."


Art. 97
"Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, assicurano l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico."


Art. 119
"I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea".


Gli articoli 97 e 119 hanno più propriamente una dimensione economica e finanziaria rispetto all'articolo 117, ma di certo il continuo rimando all'"ordinamento europeo" non lascia dubbi circa le finalità delle modifiche costituzionali.

E' del tutto evidente, mi pare, che il primo comma dell'articolo 117 nel referendum del 2001 non fu neppure preso in considerazione nella campagna referendaria dell'epoca, basando questa soltanto sulla questione del federalismo e, ancora di più, sull'ennesimo referendum pro o contro l'alleanza Berlusconi/Lega nord. Pochi, credo, ebbero contezza di cosa si stava votando (devoluzione compresa) e pochissimi manifestarono dubbi circa la necessità di costituzionalizzare, fra le fonti del diritto interno, anche l'"ordinamento europeo" e gli "obblighi internazionali".
Ora la questione che si pone è: perché il centrosinistra decise che la Costituzione italiana dovesse avere un preciso e inequivocabile riferimento alla produzione legislativa europea? Che idea aveva e ha di questa Europa, di questa Unione europea per meglio dire?
Perché il problema è proprio questo.
Posto che ciascun paese dell'Unione ha quale tratto caratterizzante la democraticità (sono cioé sistemi elettivi con poteri dello Stato bilanciati e consentono strumenti di controllo/partecipazione da parte dei cittadini sulla politica dignitosamente funzionanti, ecc.) si è proprio certi che questa Unione abbia le caratteristiche di un sistema democratico? Che gli elettori europei possano davvero incidere sulle decisioni della Commissione e dei vari Consigli?
Le obiezioni su questo punto sono  numerose e di certo non campate in aria.
Molti dicono, e io sono di questa opinione, che l'intera architettura europea, a rigore, non è democratica. Non lo è per gli scarsissimi poteri che ha il Parlamento, non lo è perché Commissione e Consiglio sono organi con poteri grandissimi espressione di governi e non diretta emanazione del Parlamento e/o dell'elettorato e non lo è perché il controllo che possono esercitare i cittadini sugli organi legislativi è pressocché nullo.
Se così stanno le cose questa cessione di sovranità che l'Italia ha costituzionalizzato ha i requisiti di costituzionalità?
È, cioè, coerente con i principi ispiratori della nostra Carta?
Perché un conto è ratificare direttive europee in Parlamento più o meno liberamente, un altro conto è prevedere che la potestà legislativa è vincolata dall'ordinamento europeo. Soprattutto se si tiene conto che una vasta parte della produzione legislativa di ogni singolo paese dell'Unione è ormai largamente influenzata dalle normative europee in tutti i settori nei quali l'UE ha competenza e che sono decisivi (commercio, agricoltura, sistema bancario, ecc.).
Di fatto la stragrande maggioranza dei cittadini italiani (sondaggi alla mano) non ha neppure idea di cosa è l'Unione europea, come è fatta, cosa decide, chi decide cosa, come e quando. Chi ha qualche conoscenza in più pensa si tratti di un Ente che finanzia la formazione giovanile o i parcheggi nelle città. Chi eccelle nella conoscenza sa addirittura che la sede del Parlamento è a Bruxelles (o forse a Strasburgo) e chi è un esperto della materia conosce nientepocodimeno che il nome del Presidente della Commissione.

Stando così le cose è del tutto evidente che non si parli né dell'art. 117 della Costituzione, né se è possibile cambiare lo stato delle cose in Europa. Al massimo, qualcuno (Renzi per esempio) ci racconta che gli impegni europei vanno onorati ma vanno anche cambiati. Naturalmente si riferisce alla questione dell'austerità, non certo all'architettura di questa istituzione.
Possibile che questioni di tale portata non siano nemmeno prese in considerazione in questa campagna elettorale?
Possibile, naturalmente. Anzi necessario, perché nei sistemi democratici le campagne elettorali sono fatte per le masse e alle masse si parla con slogan ad effetto. Sono finiti i tempi i cui i partiti, nelle sezioni, discutevano di politica e di progetti futuri. Oggi si vive alla giornata e delegando tutto agli "esperti" (di norma economisti o sedicenti tali) oppure ai "politici" (categoria ormai risolutrice di ogni problema o fautrice di ogni problema) cui si chiede, ma solo in periodo di crisi e solo dopo licenziamento, a gran voce "Lavoro!!!".
Dunque dobbiamo accontentarci di vivere questa campagna elettorale con la domanda "vince Grillo o vince Renzi?" Oppure chiederci oziosamente se è meglio uscire o restare nel'Euro.
Salvo poi assistere ad infuocati dibattiti (a suon di slogan) in Tv sulla questione della "cessione di sovranità".
Troppo tardi. Già fatto.
La sovranità è ceduta e, come direbbe l'ormai mitico Scajola, a nostra insaputa.

sabato 26 aprile 2014

Grillo, il Pci, il "sorpasso" e la storia che si ripete.


Nella foto: Marx in un riuscito travestimento di Grillo
Pare che quasi tutti i sondaggi elettorali (riferiti alle elezioni europee) in questi 
giorni certifichino un sostanziale assestamento del Pd intorno al 30-32%, una crescita del M5S (adesso tra il 24 e il 27%) e un drastico ridimensionamento di Forza Italia (oggi tra il 17 e il 20%).
Al solito tutti gli altri partiti hanno variazioni molto alte (nel tempo e a seconda dell'Istituto di sondaggi che effettua l'indagine) ma tutti non raggiungono, in nessun caso, consensi a due cifre. Siccome manca ancora un mese alle elezioni, di cose ne possono capitare tante e l'unico sondaggio che avrà valore e certezza sarà il risultato finale delle consultazioni, ovviamente.
Ciononostante, ormai la tendenza generale sembra consolidata: è una corsa a tre. E in questa corsa uno dei corridori ha un obiettivo chiaro, ed è quello di scalzare dal primo posto il Pd. A questo punta il movimento di Grillo e, dopotutto, è anche una cosa fattibile. Cinque punti di differenza possono anche essere conquistati se si fa una campagna elettorale in cui il leader si spende e si spande come ha già fatto lo scorso anno ottenendo risultati del tutto sorprendenti.
Il fatto è che, paradossalmente, una "vittoria" di Grillo alle europee (cioè a dire il "sorpasso" del Movimento sul partito di Renzi) l'unico risultato serio che otterrebbe, in termini di politica nazionale, sarebbe quello di obbligare il Pd, e i suoi attuali alleati di governo, a un nuovo accordo - stavolta ancora più stringente di quello del Nazareno - con il partito di Berlusconi. Di fatto è del tutto plausibile che Forza Italia - a seguito di elezioni in cui il M5S diventi il primo o il secondo partito con distacco minimo dal Pd - entri nella maggioranza e dismetta i panni dell'opposizione.
Il perché di questo paradosso è presto detto.
Renzi e Berlusconi (e Napolitano primo fra tutti) non vogliono elezioni anticipate né ora né tra un anno; specie con la legge elettorale, di fatto proporzionale pura, attualmente in vigore dopo le modifiche effettuale dalla Corte Costituzionale. E non vogliono andarci neppure con l'Italicum - ammesso che si approvi definitivamente - poiché il rischio che Berlusconi abbia una rappresentanza parlamentare ridicola è un deterrente potentissimo per lui (e anche per Renzi). Soprattutto non vogliono elezioni anticipate fino a che la "bomba" grillina non sia disinnescata. E per disinnescarla ci vuole tempo.
Per un altro verso Renzi ha in cantiere una serie di "riforme" (costituzionali e di vario genere, che Napolitano non vede l'ora di promulgare) cui ha legato definitivamente il suo nome. Queste sono prodromiche al suo futuro politico di leader incontrastato e sa benissimo che sono fattibili solo con l'aiuto di Berlusconi. Senza Berlusconi niente futuro politico: Renzi verrebbe divorato da Grillo e ancora prima dal suo stesso partito.
I due sono legati a filo doppio, come si vede, e nessuno dei due lavora contro l'altro, anzi lavorano assieme per contenere il grillismo dilagante a dispetto delle polemichette giornaliere che li coinvolgono.
In ogni caso anche se il M5S restasse, come è nei sondaggi, soltanto il secondo partito non cambierebbe nulla: fa paura lo stesso e ne fa tanta. Il Movimento, malgrado la novità Renzi e malgrado le polemiche che lo accompagnano dal giorno dopo le elezioni del 2013 (il mancato appoggio a Bersani, le ridicole questioni sugli "scontrini" da rimborsare, le ambivalenti posizioni sull'immigrazione, le esplusioni/dimissioni di diversi parlamentari, le presunte posizioni razziste/antisemite, ecc. ecc.)  non solo non dà alcun segno di ridimensionamento ma, anzi, sondaggi alla mano, dà segni contrari: di espansione.
In queste condizioni l'unica cosa da fare, per Renzi, Berlusconi e Napolitano, è allungare il brodo, temporeggiare e mandare avanti con più lena di prima le famose (o famigerate) "riforme".
Il risultato delle elezioni europee, come noto, infatti non modifica manco di una virgola le forze in gioco nel Parlamento italiano e le "riforme" si fanno là dentro non in quello europeo.
Pertanto, superata la prima settimana di entusiasmo da parte dei grillini che ci inonderanno di grida al complotto contro di loro e di tradimento di Napolitano che non scioglierà le camere a seguito della loro affermazione, Renzi, Berlusconi e Napolitano torneranno, con maggiore e più convinta azione, al gran lavorio sulle "necessarie riforme per ammodernare il Paese".
Il processo subirà una accelerazione ancora maggiore di quella ricevuta dall'avvento di Renzi al governo e qualcuno vivrà felice e contento e qualche altro no. Fra tre o quattro anni ci si rivede alle urne per le elezioni politiche italiane.
D'altra parte qualcosa del genere è già successo. Nel 1984 il Pci - aiutato anche dalla drammatica morte di Berlinguer - vinse le elezioni europee con il famoso "sorpasso" sulla Dc.
A parte il comprensibile entusiasmo di tanti militanti che si misero pure le mutande rosse come fosse capodanno (salvo poi diventare liberisti qualche anno dopo), tutto andò come prima, anzi meglio di prima, per il Pentapartito guidato da Craxi. Tanto per dire: il governo Craxi in quello stesso anno tagliò di tre punti la contingenza (elemento su cui si innestò la successiva abrogazione della scala mobile), il Pci perse il referendum per l'abrogazione del taglio dei tre punti di contingenza, Craxi stesso rimase Capo del governo per altri tre anni e il Pentapartito sopravvisse al "sorpasso" per altri otto.
La storia si ripete due volte diceva Hegel. Marx aggiunse che la prima volta è tragedia e la seconda è farsa.
E' per questo che il M5S è guidato, avvedutamente, da un comico.


domenica 2 marzo 2014

Nuove guerre fredde e calde. Ovvero: passare dall'internazionalismo al nazionalismo e mettere paura al popolo del web.

Pare che sia dura per l'Europa e Obama (quello che spiava l'Unione europea h24 e perfino i suoi leader più cretini, tipo Zapatero) accettare un dato di fatto. E cioè che il mondo è un poco diverso da come loro lo immaginavano venti e passa anni fa, quando cadde il muro di Berlino.
A quei tempi, gli ameroeuropei, s'erano convinti che l'autodisintegrazione dell'Urss (inaspettata e sorprendente) fosse la certificazione di due cose: che il capitalismo non avesse alcun altro concorrente ideologico e politico di cui preoccuparsi e che l'egemonia culturale ed economica ameroeuropea si accompagnasse automaticamente a quella più importante: l'egemonia militare.

Ora, sul primo punto non c'è discussione: è così.
Nella foto, popolazione non ancora completamente globalizzata
Non c'è angolo del globo terracqueo (con l'eccezione di qualche fortunata tribù amazzoniana) in cui il capitalismo - nelle sue varianti (temperato, rapinatore, di stato) - non abbia trionfato portandosi appresso anche l'egemonia culturale americana (il mitico "american way of life").
La "globalizzazione", da questo punto di vista è totale e, credo, irreversibile.

Sulla seconda questione, l'egemonia militare, non è per nulla così.
Il ruolo ameroeuropeo di dominio mondiale ha certo conosciuto, nei primi quindici anni dalla fine del bipolarimo sovietico-americano, una avanzata praticamente irrefrenabile specie in Europa dove quasi tutto l'est, per cinquanta anni comunista o qualcosa del genere, nel giro di poco tempo s'è trasformato in avamposto ameroeuropeo. A volte pacificamente, altre volte con guerre civili sanguinosissime (vedi alla voce Jugoslavia).
Da qualche anno, però, la situazione è radicalmente cambiata. L'idea prevalente ai tempi di Bush del New World Order, cioè la trasformazione del mondo in un protettorato americano, s'è scontrata con una resistenza per nulla morbida da parte di due soggetti che si credevano inoffensivi o comunque controllabili: la Cina e la Russia.
Questi due Stati, benché ben lieti di partecipare al grande banchetto della Globalizzazione apparecchiato a suo tempo e altrettanto ben lieti di avere un capitalismo più o meno controllato dal partito-stato che li sta rendendo assai ricchi e potenti, non hanno alcuna intenzione di essere trattati da ospiti: hanno intenzione di essere trattati da padroni. Tanto quanto gli Usa (e la sua appendice europea). Pertanto l'idea che gli si possa pestare i piedi in continuazione e fare finta di niente invece che chiedere scusa e non farlo mai più, non fa per loro.
Un esempio recente tra i tanti che possono farsi, eclatante e ormai dimenticato, è dato dalla crisi siriana dell'estate scorsa. Alla notizia (falsa) che Assad avesse gasato mezza Damasco gli ameroeuropei risposero che Assad doveva essere eliminato e accesero i motori di navi e di aerei da guerra perché, dicevano, un crimine del genere non poteva restare impunito. Il tono minaccioso durò qualche settimana, giusto il tempo di scoprire che in Siria, a Tartus, c'era l'unica base militare russa fuori dal suo territorio e che i russi erano pronti a bombardare gli ameroeuropei se avessero continuato a sparare cazzatine.
Il risultato è stato, come noto, che Assad è ancora al suo posto. E pure la base russa nel mediterraneo.

Già questo dovrebbe dare l'idea che i bei tempi per gli ameroeuropei del prendersi tutto e lasciare agli altri solo qualche briciola, erano tristememente passati. E che era un pericolosissimo azzardo continuare a giocare al risiko fomentando gruppi e gruppetti filoamericani in giro per il mondo in tutte quelle zone dove, volenti o nolenti, c'erano già altri insediati coi loro interessi.
Perché questo azzardo ha come conseguenze due cose: da un lato il rischio, serio, che qualche sconsiderato prema per primo il grilletto e inneschi una qualche catastrofe nucleare e un altro, non meno pericoloso, che è quello di incoraggiare Russia e Cina a fare allo stesso modo: cioè a fomentare dove è possibile fomentare e installarsi dove è possibile installarsi col rischio, ancora una volta serissimo, che, a forza di giocare col fuoco, ci si bruci. Tanto per dire: è di qualche giorno fa la notizia che il Ministro degli esteri russo ha fatto un bel tour in giro per il mondo alla ricerca di alleati con i quali contrattare basi militari e navali. E questo giro ha avuto come interlocutori non pochi leader latino americani che, da un poco di tempo, ne hanno le scatole piene degli statunitensi (vedi qua).
Il fatto è che le cose sono cambiate, che ormai il mondo è ridiventato multipolare e che questo multipolarismo sa tanto di vecchio e di dejà vù.
La Russia non è più comunista e internazionalista ma nazionalista, così come la Cina. E gli Stati uniti.
Non ci sono più ideologie dietro la spartizione del mondo, neppure per finta.
Ci sono interessi economici e militari chiari con l'aggravante di una rinascita vigorosissima del nazionalismo che gioca il ruolo del collante per le popolazioni dei nuovi imperi.
Proprio come accadeva ai tempi - poco gloriosi - degli imperi spagnolo, francese e inglese che hanno stravolto il mondo per qualche secolo e, di tanto in tanto, si facevano la guerra  (direttamente o per interposta persona) reciprocamente - in un mutevole ma costante gioco di alleanze - ogni qualvolta era necessario per salvaguardare i propri interessi economici.

Questa fase della politica internazionale, e la crisi ucraina ne è l'ennesima dimostrazione, pare un misto tra il Gioco dell'oca e il Risiko: finita l'epoca delle guerre fredde (e calde) ideologiche si è tornati alla casella di partenza cioè alle guerre fredde (e calde) nel nome del supremo interesse nazionale dei paesi che adesso hanno preso il posto della Spagna, della Francia e dell'Inghilterra.
Solo che adesso, a differenza di qualche tempo fa, ci sono le armi nucleari. Che sono, notoriamente, un pochetto più pericolose delle armi cosidette convenzionali.
Ragione vorrebbe, pertanto, che ci si desse una bella calmata, soprattutto da parte degli ameroeuropei che hanno tutta questa fregola di occupare l'occupabile. E, realisticamente, cominciassero a discutere sul come mettersi d'accordo con i nuovi (si fa per dire) arrivati.
Tanto, alla fin fine, di roba da mangiare ce n'è ancora, di popoli da spolpare ancora tanti e di danno da fare, distruggendo ogni cosa animata e inanimata sul pianeta grazie alle magnificenze di un capitalismo senza freni, ancora tantissimo.
Tutto questo si può fare tranquillamente in silenzio e appartati in qualche grand hotel, senza bisogno di fare tutto questo casino e impaurire il "popolo del web" che, giustamente, sta sul web per i siti porno e condividere su Facebook le foto delle vacanze non certo per interessarsi di politica internazionale.

venerdì 31 gennaio 2014

Il PUPU, lo SPUTO e le "Grandi Riforme": one people, one state, one president.


http://maurobiani.it/

Il PUPU, Partito Unico del Pensiero Unico (cioè il Piddì e tutto quello che è alla sua destra, alla sua sinistra e al suo centro ad esclusione di un gruppetto di giovini ribaldi con le idee un poco confuse) continua la sua avanzata travolgendo uomini e cose verso la meta finale: lo Stato del Pensiero Unico Taumaturgico Onniscente (SPUTO).
La meta è a pochi passi e si tratta ormai soltanto di formalizzare una situazione di fatto.
La società europea, e quella italiana non fa eccezione, è infatti una società politicamente divisa in due parti: una - maggioritaria - che ha accettato in toto o in larga parte il Pensiero unico dominante (liberista in economia, atlantista in politica estera, formalmente democratico nella sua ispirazione ma di fatto oligarchico e antidemocratico) e un'altra parte - minoritaria - variopinta, frammentata e raccogliticcia che ha dentro di tutto: neofascisti, nazionalisti patriottardi, comunisti di ogni ordine e grado, grillini e, insomma, tutto quello che in qualche modo - e a suo modo - si oppone al Pensiero unico.

Il modello di riferimento

Il modello ispiratore dello SPUTO è, naturalmente, la patria della democrazia moderna, cioè gli USA. Uno stato dove l'elettorato attivo è una minoranza della popolazione avente diritto, dove vige il bipartitismo perfetto, dove un parlamento di qualche centinaio di persone legifera nel nome di una popolazione di centinaia di milioni di individui e dove un governo iperdecisionista affronta qualunque tema e argomento dello scibile umano attraverso la figura del Presidente dell'Unione: una specie di autocrate con poteri pressocché illimitati e largamente dipendente da una moltitudine di gruppi di pressione industriali, militari e bancari.
Il bipartitismo perfetto statunitense ha due caratteristiche essenziali. La prima è quella di essere un bipartitismo del tutto formale: le politiche economiche, quelle sociali e la politica estera dei due partiti (Repubblicano e Democratico) sono, infatti, pressocché identiche da almeno un quarantennio. La seconda è che questi due partiti esistono non perché la popolazione elettorale abbia deciso così, ma perché il sistema elettorale è confezionato per evitare che altri partiti possano nascere.
Il modello dello SPUTO Usa esercita, in Italia ma non solo in Italia, un fascino straordinario e una irresistibile attrazione. Per vari motivi.
Il primo motivo è quello che si tratta di un modello semplificatore che funziona: a fronte di una società complessa e magmatica ("liquida" per dirla con Bauman) c'è un potere politico solido, ideologicamente compatto e rapido nelle decisioni.
Il secondo motivo è che lo SPUTO mantiene la forma democratica (e anche la sostanza in qualche caso, esempio i diritti umani) e l'idea della rappresentanza pur riducendo al minimo le due cose.
Il terzo motivo è che è facile da capire per una massa elettorale sempre meno interessata alla politica e sempre più attratta, per esempio, dai social network: si capisce subito chi comanda (almeno apparentemente) ed è facile alzare, all'occorrenza, il dito indice per indicare il capro espiatorio o battere le mani per acclamare il salvatore della patria.
Questi motivi stanno alla base di una idea molto forte che ha fatto presa presso tutti i partiti che abbracciano l'ideologia del Pensiero Unico: l'idea è quella che una società moderna complessa può essere governata solo con un deficit di democrazia e di rappresentanza. Cioè attraverso una struttura istituzionale focalizzata sul potere esecutivo che deve essere rapido ed efficiente nelle decisioni, abbassare al minimo (l'optimun è lo zero assoluto) le conflittualità dentro gli organi istituzionali e garantire la continuità delle politiche fondamentali del Pensiero Unico indipendentemente dal cambio di maggioranze elettorali.

Un modello bello.

In Europa, per ragioni storiche e politiche, questo modello è pressocché ormai stabilizzato in tutti i paesi maggiori; manca all'appello l'Italia, come tutti i suoi abitanti, ritardataria per definizione.
L'esistenza, nel nostro paese, per circa un cinquantennio, di un potentissimo (elettoralmente e non solo) Partito (sedicente) comunista, a differenza degli altri paesi dove il partito di sinistra era normalmente non comunista ma socialdemocratico (il volto bonario e grassottello del liberismo perfettamente personificato da una nullità come Martin Schulz), ha reso il nostro avanzare verso l'applicazione dello SPUTO lento e zoppicante. Non perché gli ex (sedicenti) comunisti non fossero convinti che fosse la cosa giusta da fare ma perché sembrava una cosa brutta, nel giro di qualche mese, ammainare la bandiera rossa e issare quella a stelle e strisce.
Si è, pertanto, dovuto aspettare qualche annetto. Giusto il tempo che qualche dirigente ed elettore (sedicente) comunista morisse e che si spegnesse la memoria delle feste dell'Unità dove si vendeva il "libretto rosso" di Mao, l'opera omnia dei discorsi del compagno Ceausesco, il "Capitale" versione tascabile e dove ci si commuoveva con la colonna sonora degli Inti Illimani al grido collettivo di "el pueblo unido jamas sera vencido".
Ma non è stato tempo perso, perché, nel frattempo, è venuta a completarsi la trasformazione sociale e politica della popolazione che è divenuta quasi interamente - ed entusiasticamente - liberista-consumista e che ha provato sulla sua pelle l'ebrezza del vento del cambiamento portato dalla caduta del muro di Berlino e, più precisamente e recentemente, le gioie della tv LCD, dell'iphone a rate, dei viaggi low cost prenotati su Internet e, insomma, di tutto quel ben di dio che è il capitalismo moderno.
Una società in movimento (come si dice), terziarizzata e frammentata socialmente ed economicamente, col "popolo delle partite Iva", con un sindacato sempre più in difesa, con un numero divertente di figure contrattuali finto autonome o finto salariate (dipende dai punti di vista) ma con una unica idea fissa in testa: il mondo non può essere cambiato, va per conto suo, tanto vale adeguarsi.
La incontenibile potenza di questa idea è stata solo parzialmente (e poco significativamente) ridotta da quasi cinque anni di crisi economica, come dimostra il fatto che alle scorse elezioni politiche il PUPU (Piddì, Piddielle e consorziati più i centristi duri e puri) ha ottenuto quasi il 70% dei voti alla Camera.
A fronte di questa situazione sociale, come si diceva all'inizio, c'era la necessità di adeguare, finalmente, anche l'impianto istituzionale.
Cioè andare dritti verso la forma stato SPUTO: bipartismo, centralità dell'esecutivo e marginalizzazione di ogni formazione politica (piccola o grande che sia) oppositrice del Pensiero unico liberista.

Facciamolo anche noi.

L'accelerazione di queste settimane data al processo di riforma dell'ordinamento dello stato italiano da repubblicano, democratico e parlamentare a oligarchico, decisionista e autocratico è, dunque, perfettamente comprensibile e, da un certo punto di vista, ovvio.
La scelta dei tempi è anch'essa assolutamente ottima poiché diffusissima e maggioritaria è ormai divenuta l'idea che i mali di questa Italia in crisi non siano dovuti ad un modello economico sconclusionato basato sul liberismo ma agli sprechi della politica, all'"arretratezza" della legislazione sul lavoro (senza l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, come si è visto, l'Italia ha ritrovato un rinascimento economico grandioso), alla corruzione e ad altre comiche stronzate del genere. Pertanto "ora o mai più" oppure "o si cambia o si muore". Insomma le "Grandi riforme" - come ci ripete con l'insistenza di un pappagallo il presidente di tutti Napolitano - vanno fatte "qui ed ora".
In queste condizioni, la legge elettorale in questi giorni in discussione in Parlamento è il primo, necessario, passaggio verso lo SPUTO: la ipersemplificazione del panorama politico necessaria a garantire una maggioranza di governo ad una delle due incarnazioni del PUPU (il piddì e il frastagliato ma, al momento del bisogno, coeso "centrodestra") e la cloroformizzazione di ogni altra formazione politica non aderente al Pensiero unico.
I successivi passaggi, possibilmente prima delle elezioni ma non necessariamente, prevedono la fine del bicameralismo perfetto, la riduzione dei parlamentari e il semipresidenzialismo (con conseguente, straripante, iperpersonalizzazione della politica). Il tutto confezionato nel nome della "governabilità" e della "necessità" di ammodernare il paese.
Il risultato finale, a breve scadenza, sarà uno stato riconducibile non più ad un Parlamento con partiti e posizioni politiche diverse, ma ad un uomo che, vinte le elezioni, rappresenterà il popolo e lo stato stesso, secondo la formula statunitense "one people, one state, one president".
Che in tedesco suona pressappoco così " Ein Volk, ein Reich, ein Fuhrer".