Il marchese di Montezemolo mentre individua un nuovo manager |
Negli ultimi dieci anni pare ne abbia guadagnati un centinaio. Una cifra congrua per gli altissimi servigi che quest'uomo ha reso al mondo.
Lui, il marchese, e i suoi pari sono chiamati "manager". E i manager sono l'aristocrazia del XXI secolo.
Quella che gestisce i fondi di investimento, le grandi imprese (pubbliche e private), le banche. Il potere insomma, quello vero, quello economico.
Quella cui appartine il già citato marchese è una aristocrazia a dimensione culturale mondiale.
Sempre in viaggio da un punto all'altro del globo per affari e del globo conosce solo le suites a cinque stelle degli alberghi nelle città dove alloggia. Ha legami fortissimi con la politica sia quella del suo paese di origine sia quella dei paesi dove lavora. E ne influenza pesantemente le scelte.
Non serve un "paese" ma l'impresa per cui in quel momento lavora.
Parla una lingua unica per capire e farsi capire, un nuovo esperanto: il profitto. E, infine, può contare - per la propria sopravvivenza, per il proprio successo, per il proprio dominio - su un'arma infallibile: il consenso che gli viene dato da tutti gli altri esseri umani, i quali, nella sua lingua, sono chiamati "consumatori".
A differenza dell'aristocrazia classica che ha dominato l'Europa per un millennio, l'aristocrazia dei manager non è dinastica, è meritocratica.
Non si deve essere figli di manager per diventare manager, il titolo non viene trasmesso per eredità. Manager si diventa accedendo, in un modo o nell'altro, a quegli ambiti dove si insegna l'ideologia del capitale, della competizione, del mercato e del consumo, che si tratti di università o di luoghi di lavoro.
E' una aristocrazia "meritocratica" si diceva: non si guarda alle origini del manager, ma alla sua capacità di produrre profitto in qualunque condizione e a qualunque latitudine. Il valore, il "merito", del manager è dato dalla capacità che ha di creare, consolidare, aumentare il profitto di una azienda (quasi sempre non sua) con qualunque mezzo a sua disposizione che si chiami pubblicità o che sia lobbying sulla politica.
Ed è questo, questo suo essere meritocratica e perciò accessibile a chiunque abbia "merito", che rende la nuova aristocrazia, agli occhi del resto della popolazione umana (i "consumatori"), accettata con entusiasmo, attraente, invidiata, omaggiata. Cosicché pochi la mettono in discussione e ancora meno ne mettono in discussione i principi sui quali fonda il suo potere, primo tra tutti il "libero mercato" ormai, più che un principio, il nuovo dio unico.
Perché manager, appunto, di diventa, non si nasce. E dunque chiunque può diventare come Montezemolo o come Marchionne o come Steve Jobs. Basta avere il "merito", le idee, la giusta ambizione.
Questa condizione, questo suo essere accettata universalmente, salverà la nuova aristocrazia dal disastro cui quella classica andò incontro a partire dalla presa della Bastiglia, e manterrà tutti gli altri ai suoi ordini. Perché c'è il loro consenso e il loro plauso.
Poco importa se tutti gli altri vengono affamati e illusi dai nuovi aristocratici; il sogno di diventare come loro, come tutti i sogni, non si può spegnere, anzi si alimenta perché potentissimo è il richiamo e l'adesione ai "valori" che esprimono i manager e che ogni giorno sono ripetuti fino all'ossessione: il successo, le capacità, la competizione, il coraggio delle sfide.
Poco importa questo e ancora meno importa scoprire che questo mondo nel quale viviamo è sempre più simile a quello di mille anni fa. Diviso in due. Mille anni fa da un lato c'era l'elite aristocratica e dall'altro la massa plebea. Oggi da un lato c'è l'elite manageriale e dall'altro la massa dei "consumatori".
Il medio evo è tornato.
E sta bene così.
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