giovedì 11 settembre 2014

Il medio evo tra noi

Il marchese di Montezemolo mentre individua un nuovo manager
A sua eccellenza il marchese di Montezemolo, leader supremo della Ferrari fino a ieri, nonché fondatore del partito che ha vinto le elezioni di topolinia cioè "Italia Futura", Marchionne darà 27 milioni di euri di buonuscita (di cui 13 per un patto di non concorrenza) pur di liberarsene.
Negli ultimi dieci anni pare ne abbia guadagnati un centinaio. Una cifra congrua per gli altissimi servigi che quest'uomo ha reso al mondo.
Lui, il marchese, e i suoi pari sono chiamati "manager". E i manager sono l'aristocrazia del XXI secolo.
Quella che gestisce i fondi di investimento, le grandi imprese (pubbliche e private), le banche. Il potere insomma, quello vero, quello economico.
Quella cui appartine il già citato marchese è una aristocrazia a dimensione culturale mondiale.
Sempre in viaggio da un punto all'altro del globo per affari e del globo conosce solo le suites a cinque stelle degli alberghi nelle città dove alloggia. Ha legami fortissimi con la politica sia quella del suo paese di origine sia quella dei paesi dove lavora. E ne influenza pesantemente le scelte.
Non serve un "paese" ma l'impresa per cui in quel momento lavora.
Parla una lingua unica per capire e farsi capire, un nuovo esperanto: il profitto. E, infine, può contare - per la propria sopravvivenza, per il proprio successo, per il proprio dominio - su un'arma infallibile: il consenso che gli viene dato da tutti gli altri esseri umani, i quali, nella sua lingua, sono chiamati "consumatori".

A differenza dell'aristocrazia classica che ha dominato l'Europa per un millennio, l'aristocrazia dei manager non è dinastica, è meritocratica.
Non si deve essere figli di manager per diventare manager, il titolo non viene trasmesso per eredità. Manager si diventa accedendo, in un modo o nell'altro, a quegli ambiti dove si insegna l'ideologia del capitale, della competizione, del mercato e del consumo, che si tratti di università o di luoghi di lavoro.
E' una aristocrazia "meritocratica" si diceva: non si guarda alle origini del manager, ma alla sua capacità di produrre profitto in qualunque condizione e a qualunque latitudine. Il valore, il "merito", del manager è dato dalla capacità che ha di creare, consolidare, aumentare il profitto di una azienda (quasi sempre non sua) con qualunque mezzo a sua disposizione che si chiami pubblicità o che sia lobbying sulla politica.
Ed è questo, questo suo essere meritocratica e perciò accessibile a chiunque abbia "merito", che rende la nuova aristocrazia, agli occhi del resto della popolazione umana (i "consumatori"), accettata con entusiasmo, attraente, invidiata, omaggiata. Cosicché pochi la mettono in discussione e ancora meno ne mettono in discussione i principi sui quali fonda il suo potere, primo tra tutti il "libero mercato" ormai, più che un principio, il nuovo dio unico.
Perché manager, appunto, di diventa, non si nasce. E dunque chiunque può diventare come Montezemolo o come Marchionne o come Steve Jobs. Basta avere il "merito", le idee, la giusta ambizione.
Questa condizione, questo suo essere accettata universalmente, salverà la nuova aristocrazia dal disastro cui quella classica andò incontro a partire dalla presa della Bastiglia, e manterrà tutti gli altri ai suoi ordini. Perché c'è il loro consenso e il loro plauso.
Poco importa se tutti gli altri vengono affamati e illusi dai nuovi aristocratici; il sogno di diventare come loro, come tutti i sogni, non si può spegnere, anzi si alimenta perché potentissimo è il richiamo e l'adesione ai "valori" che esprimono i manager e che ogni giorno sono ripetuti fino all'ossessione: il successo, le capacità, la competizione, il coraggio delle sfide.
Poco importa questo e ancora meno importa scoprire che questo mondo nel quale viviamo è sempre più simile a quello di mille anni fa. Diviso in due. Mille anni fa da un lato c'era l'elite aristocratica e dall'altro la massa plebea. Oggi da un lato c'è l'elite manageriale e dall'altro la massa dei "consumatori".
Il medio evo è tornato.
E sta bene così.

venerdì 5 settembre 2014

Teoria e pratica delle "riforme strutturali". Ovvero come tornare al medioevo con l'aiuto dei predicatori.

Padre Mario prima e dopo la predica

Anche oggi - come ogni giorno da una quindicina d'anni e forse più a questa parte - abbiamo ricevuto la quotidiana razione di prediche sulla necessità impellentissima di fare le "riforme strutturali". Stavolta il predicatore è stato padre Mario, il patriarca della BCE.
Padre Mario apre bocca raramente ma quando lo fa, in automatico, la prima cosa che gli viene da dire è: "si debbono fare le riforme strutturali". Lo  dice all'autista, al barbiere, alla moglie, ai vicini di casa e se lo ripete da solo. Appena sveglio strabuzza gli occhi, si stiracchia, apre la bocca per sbadigliare e, invece che sbadigliare, dice: "buongiorno mondo! oggi si debbono fare le riforme strutturali". Poi, come sempre, silenzio, dolore e rassegnazione si dipingono sul suo cereo e poco passibile volto in attesa di incontrare l'autista e salutarlo col solito "ciao caro, passa col rosso se necessario, oggi si debbono fare le riforme strutturali". Insomma, un vero missionario predicatore col sacro fuoco dentro, padre Mario.

Se state cercando di capire cosa intenda padre Mario - o chiunque altro - ogni volta che parla di "riforme strutturali", lasciate perdere.
Ciascuno a quella espressione dà i contenuti che meglio gli aggradano e, comprensibilmente, c'è di tutto: dal cambiare le Costituzioni, alla liberalizzazione del "mercato" del lavoro, alla riduzione della pressione fiscale, alla sistemazione del tetto pericolante.
Elencarle tutte sarebbe impossibile e anche, credo, abbastanza inutile.
Sommamente utile invece, mi parrebbe, cercare di capire il motivo per cui queste "riforme strutturali" debbano essere fatte e perché. E, soprattutto, a quale principio debbano ispirarsi. Perché, vedete, io appartengo a quella categoria di persone che sono convinte che se si capisce la teoria, si capirà (meglio) anche la pratica.
E la teoria che sta dietro alle "riforme strutturali" è quella che - in un ineguagliato capolavoro di sintesi - enunciò una decina di anni fa il defunto padre dell'euro, sua eccellenza Tommy Padoa-Schioppa. Con queste parole: "Nell' Europa continentale, un programma completo di riforme strutturali deve oggi spaziare nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato del lavoro, della scuola e in altri ancora. Ma dev'essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l' individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità." (qui il testo integrale)

Capite bene, cari amici, che la questione non è da poco.
Il diaframma di cui parla Tommy è quella cosa volgarmente e incomprensibilmente chiamata "Stato sociale", ovverossia tutta quella serie di strumenti (politiche pubbliche) che gli Stati europei occidentali, soprattutto dal secondo dopoguerra in poi, hanno escogitato per rendere la vita meno difficile agli uomini. Si badi bene: a tutti gli uomini certo, ma soprattutto a coloro i quali erano stati meno fortunati nel venire al mondo su questo simpatico - anche se alle volte un poco pericoloso e un poco squallido - pianeta.
Meno fortunati perché nati in famiglie povere o meno fortunati perché nati con malformazioni (essì, cari miei, la natura a volte, come diceva il mio filosofo preferito, "è una puttana") oppure meno fortunati perché per vivere dovevano elemosinare il favore e la pietà di qualche potente.
Per rendere meno schifosa la vita a questi individui (che pochi non erano e, forse, non sono) lo Stato cambiò natura: da strumento di potere e di controllo di alcune classi dominanti (l'aristocrazia e la ricca borghesia, tanto per dire), si trasformò in strumento di integrazione e di inclusione sociale. E cercò (e trovò) un sacco di modi per rendere effettiva questa trasformazione.
Per esempio istituì l'istruzione di base obbligatoria e gratuita per tutti (deficienti, o presunti tali, e morti di fame compresi) caricando sulle casse pubbliche le spese per questa titanica operazione. E caricò sulle casse pubbliche pure il costo dell'assistenza sanitaria gratuita per tutti (menomati dalla nascita e infortunati sul lavoro compresi). E non contento di questo decise che era tempo di ridurre lo straripante potere di contrattazione dei padroni (ops, i datori di lavoro, volevo dire) nei confronti dei lavoratori con i contratti collettivi di lavoro. Si diede pena anche di portare l'energia elettrica fino all'ultimo centro abitato della più disabitata delle montagne senza guadagnarci un centesimo (cioè senza fare profitto, anzi perdendoci) per il semplice gusto di non lasciare indietro chi era nato in quei posti invece che in una scintillante città. E decise, perfino, che il lavoro non era una "merce" e perciò gli individui meno fortunati dovevano avere un salario che gli garantisse la dignità di un essere umano libero e non di uno schiavo e, quindi, non potevano essere pagati solo per quello che facevano. Dovevano essere pagati anche per quello che erano: esseri umani. Non bestie.

Ora, tutte queste belle cose sono appunto quel "diaframma" di cui parla Tommy. E ha ragione Tommy. Queste cose, nel tempo, hanno allontanato l'individuo dal contatto diretto con la "durezza del vivere" con cui si era confrontato dacché era comparso sul pianeta. E cioè: la lotta per la sopravvivenza, la necessità di aguzzare l'ingegno per sfuggire alle cattiverie della natura, la difficoltà della malattia, della perdita del lavoro e, insomma, tutta una serie di provvidenziali seccature che sono alla base dello sviluppo  e dell'affinamento dello spirito imprenditivo dell'essere umano. Perché, cari miei, sono le disgrazie che aiutano a crescere, mica la consapevolezza dei propri limiti. La ragione del fare le "riforme strutturali", pertanto, è quella di riportare l'individuo alla sua primigenia natura (cioè di arzillo conquistatore e dominatore del mondo) che è stgata improvvidamente corrotta dalla solidarietà sociale elevata a modello di stato.
Di fatto lo Stato sociale, secondo Tommy Padoa-Schioppa, ha rammollito l'individuo (europeo), l'ha reso un "bamboccione", uno che non fa una mazza da mane a sera e si aspetta che sia lo Stato (sociale) a camparlo.
La domanda a questo punto è: cosa ci vuole per rendere di nuovo l'homo europeus in grado di sostenere le sfide che la globalizzazione (cioè, per capirci, il confronto con paesi dove la manodopera di un essere umano è valutata tanto quanto quella di un mulo da soma) ci impone?
Ma ovvio! Ridurre il diaframma. Cioè smantellare lo Stato sociale. Cioè riportare tutto a 70, o meglio ancora, cento o duecento anni fa. Cioè fare le "riforme strutturali". Qualunque cosa queste siano, purché siano informate a quel principio più sopra marcato in grassetto.
Non l'estensione dello Stato sociale a tutti i paesi della terra deve essere l'obiettivo della politica, ma, più realisticamente, la sua riduzione e, possibilmente, il suo smantellamento. Per tornare ai bei vecchi tempi.
Quelli che, come ci ricorda sempre il grande defunto Tommy, erano alla base del pensiero liberale di un altro grande defunto, Luigi Einaudi, il quale ammoniva con le sue "prediche inutili" (per fortuna) che tutto sarebbe andato per il meglio se si fossero lasciate "funzionare le leggi del mercato, limitando l' intervento pubblico a quanto strettamente richiesto dal loro funzionamento e dalla pubblica compassione".
Già, la "pubblica compassione" e le leggi del "libero" mercato. Il migliore pensiero cristiano unito al migliore pensiero liberale. Quei due pensieri dai quali, secondo un non ancora defunto padre di non si sa che cosa (di nome Bertinotti), si deve ripartire per un cammino di "liberazione".
Su, amici, forza,
in cammino e domani diamoci sotto con le "riforme strutturali".
Non lasciamo solo padre Mario il predicatore.